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Ecco un intervento di Simone Silenzi, sui sentimenti, le emozioni, le paure e l'ansia che
assalgono le persone che hanno un "cancer".
Superstizione,
vergogna, rabbia. Sono questi alcuni elementi che rafforzano moltissimo la
solitudine in cui ognuno di noi si è trovato a vivere. In alcuni un
atteggiamento non dichiarato, ma superstizioso fondamentalmente, porta a non
cercare o non dire finché le cose sembrano andare bene, ad esempio quando la
cura sembra fare effetto, oppure nel periodo di nuova nascita (per molti il
solo superare l’operazione è sentito come evento di simile importanza.
In altri, sentendo, o come nel caso del gruppo o di altri forum, leggendo, di casi disperati o evoluti drammaticamente, si sentono quasi “in colpa” perché a loro è andata bene, o sta andando bene, e così non se la sentono di “affacciarsi” e testimoniare.
Moltissimi sentono rabbia per l’ingiustizia subita. Perché, diciamocelo, questo mostro irrompe devastando la vita di persone stupende, generose, piene di volontà, e non possiamo non gridare, come Giobbe, forte fino a Dio che è un’ingiustizia!
E si finisce per provare non invidia, ma una rabbia taciuta e non malevola verso chi ce l’ha fatta o ce la sta facendo, e rabbia verso chi non ti comprende.
Ma ben ricordo, e sempre lo dico, che fino a che non accadeva ciò che sta accadendo nella mia vita, quando sentivo parlare di qualcuno con “un brutto male” mi dicevo e mi sentivo dispiaciuto, ma in realtà ero anni luce, anzi di più, dalla piena cum-patio.
Con i medici, in particolare spesso con il neurochirurgo che effettua l’operazione si stabilisce un rapporto “di sangue”, per una sorta di imprinting (questa è la sensazione che dall’indescrivibile gratitudine con cui una persona operata guarda e considera il medico che l’ha operata).
Solo chi è in trincea, solo chi è “a portata di sguardo del sofferente”, può comprendere. Basta allontanarsi di poco, fuori della stanza, dietro una scrivania, dentro un ufficio, e già è solo prassi e protocollo, affidati alla “simpatia”, al “savoir faire”, al carisma, alla umanità, al buon cuore, alla sorte (?) di chi si incontra.
Questo “terno al lotto”, che umanamente è inevitabile, deve cessare di esistere, in ambito sanitario accettando unicamente e selettivamente un livello di professionalità che preveda per “default” un atteggiamento di comprensione dell’intera persona umana, e soprattutto in considerazione della condizione in cui si trova, prima che per la professione (intendo dall’operatore del CUP, all’impiegata della direzione sanitaria, fino ad arrivare al migliore ma intoccabile e inarrivabile primario).
Agevolando ad esempio una diffusione della conoscenza, potremmo fare molto per aiutare molto coloro che ci dovrebbero aiutare.
In altri, sentendo, o come nel caso del gruppo o di altri forum, leggendo, di casi disperati o evoluti drammaticamente, si sentono quasi “in colpa” perché a loro è andata bene, o sta andando bene, e così non se la sentono di “affacciarsi” e testimoniare.
Moltissimi sentono rabbia per l’ingiustizia subita. Perché, diciamocelo, questo mostro irrompe devastando la vita di persone stupende, generose, piene di volontà, e non possiamo non gridare, come Giobbe, forte fino a Dio che è un’ingiustizia!
E si finisce per provare non invidia, ma una rabbia taciuta e non malevola verso chi ce l’ha fatta o ce la sta facendo, e rabbia verso chi non ti comprende.
Ma ben ricordo, e sempre lo dico, che fino a che non accadeva ciò che sta accadendo nella mia vita, quando sentivo parlare di qualcuno con “un brutto male” mi dicevo e mi sentivo dispiaciuto, ma in realtà ero anni luce, anzi di più, dalla piena cum-patio.
Con i medici, in particolare spesso con il neurochirurgo che effettua l’operazione si stabilisce un rapporto “di sangue”, per una sorta di imprinting (questa è la sensazione che dall’indescrivibile gratitudine con cui una persona operata guarda e considera il medico che l’ha operata).
Solo chi è in trincea, solo chi è “a portata di sguardo del sofferente”, può comprendere. Basta allontanarsi di poco, fuori della stanza, dietro una scrivania, dentro un ufficio, e già è solo prassi e protocollo, affidati alla “simpatia”, al “savoir faire”, al carisma, alla umanità, al buon cuore, alla sorte (?) di chi si incontra.
Questo “terno al lotto”, che umanamente è inevitabile, deve cessare di esistere, in ambito sanitario accettando unicamente e selettivamente un livello di professionalità che preveda per “default” un atteggiamento di comprensione dell’intera persona umana, e soprattutto in considerazione della condizione in cui si trova, prima che per la professione (intendo dall’operatore del CUP, all’impiegata della direzione sanitaria, fino ad arrivare al migliore ma intoccabile e inarrivabile primario).
Agevolando ad esempio una diffusione della conoscenza, potremmo fare molto per aiutare molto coloro che ci dovrebbero aiutare.
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