venerdì 28 novembre 2014

Aiutare a morire non è facile

Disegno tratto dal Financial Times
Se entrate nella Rassegna Stampa dell’Istituto OncologicoVeneto (IOV) del 28.11.2014, trovate un articolo dal titolo: Ti aiuto a morire  (28 nov - Internazionale - pag. 65 - di Catherine Syer). Catherine Syer, Financial Times, Regno Unito; Foto di David Leven (Catherine Syer è uno pseudonimo. L'autrice ha chiesto di rimanere anonima). Riporto alcuni brani dell’articolo senza commento, ognuno tragga le sue conclusioni. Il titolo originale è: Helping Dad die: a daughter’s story (Aiutare papà a morire: racconto della figlia).
Un inglese che da anni soffre di una grave malattia degenerativa chiede alla figlia di portarlo in Svizzera per sottoporsi al suicidio assistito. Scontrandosi con l'ipocrisia delle istituzioni. Alla fine mio padre è stato così "fortunato" da morire in casa, circondato dalla sua famiglia, e ci ha messo solo altri sette giorni. (…)

Ma per ogni terribile secondo di quella settimana ho sofferto per lui. Anche se interminabile, quel periodo è stato perfettamente organizzato: la mattina venivano gli infermieri dell'ospedale e la sera arrivava un'altra squadra altrettanto gentile e professionale. "Non vi preoccupate", dicevano mentre gli cambiavano il pannolone, il pigiama e il letto, provocando lamenti strazianti. "Ora è tranquillo". "Non vuole essere tranquillo", mi veniva voglia di gridare, "vuole morire".(…) Il lunedì successivo il medico è tornato e l'ho sentito fare un'intensa discussione di semantica con mia sorella. " Secondo lei suo padre ha un dolore sopportabile o insopportabile?", ha chiesto . " Insopportabile", ha risposto lei senza esitare . "Sono d'accordo", ha detto il medico. " Penso che dovremmo aumentargli la morfina".(...) Il giorno dopo l'agonia di mio padre è finita. La mia prima reazione è stata di euforia. Ricordo che sono corsa al frigorifero, ho tracannato due grossi bicchieri di vino e, mentre le lacrime cominciavano a scendere, mi sono trattenuta dal correre in strada a gridare: "Finalmente, finalmente, finalmente". Poi è arrivata la rabbia e ho cominciato a sbraitare con chi era disposto ad ascoltarmi contro gli assurdi protocolli, gli eufemismi e l'ipocrisia che avevano segnato l'ultima settimana di vita di mio padre.(…) Ho un ricordo delle ultime settimane di mio padre che mi conforta. Dopo l'ennesima caduta, mi ero stesa con lui sul tappeto per distrarlo in attesa che arrivassero due robusti infermieri a sollevarlo. "Promettimi che scriverai tutta questa storia quando sarà finita", mi ha detto. Almeno quella promessa l'ho mantenuta. ♦ bt

2 commenti:

  1. Condivido in pieno questo sfogo. Ciò che fa più rabbia è l impotenza o meglio l impossibilità di poter decidere del tuo destino. Perché altri devono poter gestire il tuo corpo?

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