martedì 13 maggio 2014

Informare il paziente oncologico sulla sua patologia, anche se c'è pericolo che si suicidi?



Il suicidio di Édouard Manet 1877–1881
Navigando in internet alla ricerca di materiale sul suicidio, dopo aver letto la notizia e i commenti sul suicidio di un medico affetto da un cancer allo stomaco, mi sono imbattuto nel sito del Comitato per l’etica di fine vita (CEF). Anche i miei genitori sono "passed away" in anni lontani, sui 75 anni, per tumore. A quel tempo mi ero posto il problema se era giusto informarli sulla loro patologia oncologica inoperabile: i medici non lo fecero e nemmeno io. Sono deceduti, forse immaginando quello che avevano, con molta dignità.

E' per questo che quando ho impattato anch'io con un cancer al quarto stadio ho deciso di fare "coming out", cioè "coming out of the closet", "uscire dal ripostiglio" o "uscire dal nascondiglio", letteralmente "uscire dall'armadio a muro", mettendo in rete la mia patologia (coming out viene usata generalmente per dichiarare apertamente il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere). Nel mio caso facendo coming out per dichiarare il mio cancer, mi prefiggo due obiettivi: il primo informo, da paziente esperto, le persone che lo desiderano sulle patologie oncologiche e sulle cure; il secondo evito l'ipocrisia delle risposte alle domande di chi mi chiede come sto. Andate a leggere il blog - rispondo loro. Questa decisione mi ha aiutato a crescere interiormente, a vivere con meno stress la mia situazione e, spero, di fornire informazione come cura.

Ma veniamo al caso che ho trovato nel sito del Comitato per l’etica di fine vita (CEF). Leggo nel sito che il CEF, in precedenza denominato “Comitato etico presso la Fondazione Floriani”, è stato costituito nel 1991 per iniziativa di un gruppo di clinici e di studiosi di altre discipline persuasi della necessità di trovare risposte adeguate alle domande di assistenza provenienti dalla vasta, e sempre crescente, popolazione di malati affetti da patologie evolutive a prognosi infausta.
Nel panorama dei comitati etici che, sempre più numerosi, nascevano in Italia in quegli anni, soprattutto presso gli Enti Ospedalieri e gli Istituti di ricerca, il CEF si è caratterizzato per la specializzazione nello specifico settore delle questioni etico-giuridiche sollevate dalla cura dei malati terminali e dalle decisioni cliniche alla fine della vita.
Presidente del CEF è la prof.ssa Patrizia Borsellino ordinario di Filosofia del diritto nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, dove tiene anche l’insegnamento di Bioetica.
Tra i casi presentati mi ha colpito il seguente (postato il 09-12- 2010): Informare il paziente, anche se c’è pericolo che si suicidi?

Il caso
Il parere è chiesto da un medico palliativista con riferimento al caso di un malato affetto da neoplasia allo stomaco infiltrante e vegetante sulla parete addominale, non operabile, nonché da una grave artrite reumatoide con grave anchilosi delle anche. Il malato risulta collaborante, in pieno possesso delle facoltà mentali e senza sintomi che facciano dubitare di una patologia psichiatrica. Nel corso della prima visita il malato chiede espressamente la natura della malattia, con stupore del medico, che si chiede come sia stato possibile tacergliela fino ad allora, nonostante ricoveri e svariate chemioterapie. La risposta non viene data subito e, nel corso della seconda visita, il medico viene richiesto in modo pressante dal fratello del malato di non informarlo. Il medico ritiene di dover informare il malato secondo la sua richiesta. Ne nasce una lunga discussione e il fratello del malato dichiara il timore che questi possa suicidarsi (c’è già un caso simile in famiglia). Il medico soprassiede a questo punto dall’informare e interroga cautamente il malato, che appare nel pieno possesso delle sue facoltà intellettive, su una sua possibile reazione suicidaria, ottenendo la conferma che tale sarebbe stato l’intento del malato nel caso di una diagnosi infausta. D’accordo col fratello il medico non provvede a informare e chiede una consulenza psichiatrica, ma non viene più richiamato e apprende poi che la consulenza non è stata effettuata e il malato è morto in capo a un paio di mesi.

I quesiti
1.Deve il medico comunicare la diagnosi a un paziente, anche se la conseguenza ovviamente non voluta, ma a sua conoscenza è il suicidio del malato?

2.Qualora il medico comunichi la diagnosi e il paziente attui il suo proposito suicida, il medico è moralmente responsabile del suicidio?

3.E’ lecito non comunicare la diagnosi per evitare un suicidio?

Il parere
Il caso sembra esprimere un conflitto irriducibile in un quadro di grande drammaticità. Posto che una diagnosi infausta e un suicidio sono eventi per sé stessi drammatici, il caso, a un’analisi serena, appare meno complesso di quanto possa sembrare. E’ anche il caso di rammentare che non risultano evidenze che il tasso di suicidi per la conoscenza di una diagnosi di malattia terminale e/o inguaribile sia significativamente superiore a quello medio della popolazione, sicché il proposito suicidario, pur frequente come reazione verbale a una diagnosi del tutto infausta, non viene di regola recato ad esecuzione. Occorre anzitutto ribadire che l’informazione, tanto più se esplicitamente richiesta da un malato che appare “in pieno possesso delle sue facoltà” e sano di mente, è un diritto del malato e un dovere del medico, a prescindere dalla gravità della diagnosi, quando questa sia certa, come nel caso in esame (diversamente potrebbe dirsi, nei casi in cui la diagnosi sia incerta e/o comunque da sottoporre a ulteriori verifiche), sicché tutt’al più potrebbe venire in questione la capacità e l’adeguatezza delle modalità della comunicazione. Occorre ribadire anche che l’informazione completa e veritiera costituisce il presupposto necessario per l’esercizio del diritto all’autodeterminazione, non solo rispetto alle scelte di cura, ma anche rispetto a altre scelte della vita, sia di tipo patrimoniale (per esempio, disporre della successione) sia di tipo morale (riconoscimento di un figlio naturale, riconciliarsi con taluno e via elencando), tutte possibilità che l’ignoranza o la disinformazione impediscono di realizzare tempestivamente. Fatte queste premesse, l’intento suicidario espresso dal malato non rappresenta null’altro che l’esercizio del diritto all’autodeterminazione e l’adozione di una particolare, sia pur tragica, scelta relativamente alla gestione della propria fine vita, non trascurando il fatto che si tratta di un malato terminale. Solo una concezione sacrale della vita e l’affermazione della sua assoluta indisponibilità anche da parte del soggetto implicato e quindi la relativa attenuazione del diritto all’autodeterminazione potrebbero condurre a una soluzione diversa. Per coloro che viceversa ammettono la disponibilità della propria vita il caso si presenta molto più semplice, sotto il profilo etico, da quanto non sarebbe una richiesta eutanasica o di assistenza al suicidio da parte di un malato terminale. In ogni caso, non tocca al medico porre limiti al diritto di autodeterminazione del malato non rispondendo alla richiesta d’informazione, sicché non può ritenersi né moralmente responsabile né emotivamente in colpa per le conseguenza determinate dall’adempimento di un suo preciso dovere d’informazione corrispondente a un preciso diritto del malato. Piuttosto, l’astensione da parte del medico da una corretta informazione rispetto alla diagnosi ha comportato anche la conseguenza che egli non ha potuto offrire al malato un’informazione adeguata sulle possibilità offerte, specialmente dalle cure palliative, di una gestione alternativa della fine della vita e sulla qualità della medesima, fermo restando, si direbbe ovviamente, il diritto del malato a rifiutare anche le cure palliative.

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