Pur essendo di formazione
tecnico-scientifica (diploma di perito industriale e laurea in fisica) alcuni temi
di carattere etico, filosofico, teologico (nascita, esistenza, morte, dio, universo,
cancro, dolore, sofferenza …) mi hanno sempre affascinato, interrogato e spaventato. Ora, in
particolare, che sto combattendo da 2 anni contro la progressione del mio
Adenocarcinoma gastrico, queste riflessioni mi assillano con più frequenza,
anche se non trovo soluzione. Forse ha ragione il filosofo Hans Jonas quando afferma nel suo saggio (Il concetto di Dio dopo Auschwitz): «Dio non intervenne, non perché non lo volle, ma perché non fu in grado di farlo» e « Concedendo all'uomo la libertà, Dio ha rinunziato alla sua potenza ».
Umberto Veronesi (Milano, 28
novembre 1925) è un oncologo e politico italiano. Pioniere della
chirurgia conservativa dei tumori mammari, fu tra i fondatori dell’Associazione
Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC), Direttore dell’Istituto Nazionale
dei Tumori di Milano e fondatore dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO).
Copio e incollo alcuni brani dell'articolo di Repubblica:
[...] Non saprei dire qual è
stato il mio primo giorno senza Dio. Sicuramente dopo l'esperienza della guerra
non misi mai più piede in una chiesa, ma il tramonto della fede era iniziato
molto prima. Durante il liceo fui bocciato due volte, ero un discolo in senso
letterale: non andavo bene a scuola.
Oltre alle stragi dei
combattimenti, ho toccato con mano anche la follia del nazismo e non ho potuto
non chiedermi, come fece Hannah Arendt prima e Benedetto XVI molti anni dopo:
«Dov'era Dio ad Auschwitz?». [...] La scelta di fare il medico è, profondamente
legata in me alla ricerca dell'origine di quel male che il concetto di Dio non
poteva spiegare. Da principio volevo fare lo psichiatra per capire in quale
punto della mente nascesse la follia gratuita che poteva causare gli orrori di
cui ero stato testimone. Avvicinandomi alla medicina, però, incappai in un male
ancora più inspiegabile della guerra, il cancro, e sfidando la rassegnazione
che allora imperava, decisi di indagare se attraverso la conoscenza e il sapere
si potesse vincere quell'immenso e assurdo dolore. [...] Per chi il male non è
un'idea astratta, ma è qualcosa che si vede, si tocca e, nel mio caso, ha un
nome, tumore, diventa molto difficile identificarlo come una manifestazione del
volere di Dio. Ho pensato spesso che il chirurgo, e soprattutto il chirurgo
oncologo, abbia in effetti un rapporto speciale con il male. Il bisturi che
affonda nel corpo di una donna o di un uomo lo tiene lontano dalla metafisica
del dolore. In sala operatoria, quando il paziente si addormenta per
l'anestesia, è a te, chirurgo, che affida la sua vita. L'ultimo sguardo di
paura o fiducia è per te. E tu, chirurgo, non puoi pensare che un angelo
custode guidi la tua mano quando incidi e inizi l'operazione, quando in pochi
istanti devi decidere che cosa fare, quanto asportare, come fermare
un'emorragia.
Ci sei solo tu in quei momenti,
solo con la tua capacità, la tua concentrazione, la tua lucidità, la tua
esperienza, i tuoi studi, il tuo amore (o anche con la tua carità come la
chiamava don Giovanni) per la persona malata, sia questa il prete che ha
consolato le tue lacrime quando eri bambino, o la mamma che sta per avere un
figlio che voleva allattare proprio con quel seno che tu le hai appena tolto, o
un paziente sconosciuto che da te si aspettava soltanto la guarigione, che non
è arrivata. Allo stesso
modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato una prova della non esistenza
di Dio. Ho sviluppato questa convinzione soprattutto all'Istituto
nazionale tumori di Milano, dove ogni tanto frequentavo il reparto di
pediatria. Come puoi credere nella Provvidenza o nell'amore divino quando vedi
un bambino invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno
davanti ai tuoi occhi? Ci sono parole in qualche libro sacro del mondo, ci sono
verità rivelate, che possano lenire il dolore dei suoi genitori? Io credo di
no, e preferisco il silenzio, o il sussurro del «non so». Perché accade – e per
i bambini oggi succede sempre più spesso – che il dubbio diventi
concreta speranza e poi guarigione, e quando questo avviene, è pura gioia.
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L'articolo
di Repubblica ha scatenato varie reazioni che cito e riporto:
Veronesi
e il male che fa perdere la fede in Dio, del teologo Vito Mancuso, in “la
Repubblica” del 19 novembre 2014. Umberto
Veronesi ha spiegato perché non crede in Dio: la perdita della fede a causa della
presenza del male di cui ha parlato su questo giornale è un’esperienza comune a molti, descritta in numerose opere
filosofiche e letterarie del passato e sorgente di perenne inquietudine per i cristiani. Si tratta infatti di
un’esperienza peculiare del mondo
occidentale formato dal cristianesimo, perché nei termini raccontati da
Veronesi essa non potrebbe avvenire
né nell’islam, né nell’induismo e in nessun’altra tradizione religiosa. Per negare Dio tale ateismo
si nutre dell’argomento del bene, nel senso che la presenza del male nel mondo è per esso in aperto contrasto con un
Dio la cui essenza è pensata come
interamente buona, come amore, oltre che come onnipotenza. Se Dio è del tutto buono e ci ama, e se è al
contempo onnipotente, il male nel mondo non dovrebbe esistere; ma visto che il male esiste, a non esistere è il Dio
buono e onnipotente di cui
parla
il cristianesimo: ecco la conclusione di Veronesi e di molti occidentali prima
di lui.
Invece
per le prospettive nelle quali Dio, oltre a essere bene, è anche capacità di
male, la presenza del male non contraddice in alcun modo la sua esistenza: è
semmai solo una delle molteplici manifestazioni di una somma e imperscrutabile
onnipotenza a cui occorre conformarsi. Non è quindi un caso che l’ateismo come
fenomeno di massa sia sorto in occidente e non altrove. Scriveva Simone Weil,
una delle più acute intelligenze mistiche del nostro tempo, alla fine del ‘42: “Sento una lacerazione, sia
nell’intelligenza
che al centro del cuore, che si
va aggravando senza sosta a causa dell’incapacità di pensare insieme, nella
verità, la sventura degli uomini, la perfezione di Dio e il legame tra l’una e
l’altra cosa”.
Questa è la vera e propria aporia di cui soffre il cristianesimo. Il che, peraltro, non dimostra che il
cristianesimo sia falso, perché a essere aporetica e contraddittoria è l’esistenza stessa, così che ogni credo
religioso o filosofico che attesta la
contraddizione serve la vita, mentre quei sistemi che perseguono in primo luogo
la coerenza logica sono solo dottrine
e ideologie artificiose. Ha scritto il giovane Hegel: “Contradictio est regula veri, non contradictio falsi”, la
contraddizione è la regola del vero,
la non contraddizione del falso. Il punto è che vi sono due dati di fatto,
entrambi veri, ma inconciliabili allo
stato attuale della mente umana (un po’ come la teoria della relatività e la meccanica quantistica,
entrambe sperimentate innumerevoli volte, ma
inconciliabili
teoreticamente l’una con l’altra): l’esistenza effettiva del male, sia fisico sia
morale; e l’esistenza effettiva del bene, sia fisico sia morale. Si tratta di pensare
insieme i due dati, non uno solo di essi. Era quanto faceva Boezio nella sua
cella di Pavia prima che Teodorico lo facesse giustiziare: “Se c’è Dio, da dove
vengono i mali? E da dove vengono i mali, se Dio non c’è?” ( Consolazione della
filosofia I, 4). Se Dio c’è ed è quell’amore onnipotente di cui parla il
cristianesimo, perché, citando Veronesi, “un bambino viene invaso da cellule
maligne che lo consumano giorno dopo giorno?”. Ma se Dio non c’è, da dove
vengono le mani del medico che lo curano, la scienza che guida la sua mente e
la passione morale che lo porta a operare? Qualcuno potrebbe rispondere dall’uomo
e dalla sua ragione e direbbe bene, ma non sarebbe un argomento conclusivo, perché
rimane da spiegare da dove vengono l’uomo e la sua ragione. Se consideriamo il punto
di partenza del percorso cosmico 13,82 miliardi di anni fa, e il punto cui oggi
siamo arrivati in termini di accumulo di organizzazione e complessità, è ben
difficile attribuire tutto a un mero susseguirsi di casualità fortunate, tanto
enormi sono le probabilità contrarie al darsi della vita e dell’intelligenza
nel cosmo: tale attribuzione richiede un investimento di energia mentale almeno
pari a quello che ipotizza Dio. La
realtà
è che di fronte al dato della vita (che è: cancro + mani che lo curano, caos
+logos) appaiono insostenibili entrambi i dogmatismi: quello di chi nega ogni
forma di logica al governo del mondo e quello di chi vede tale logica in ogni
evento, come fa l’attuale Catechismo cattolico dicendo che “Dio permette che ci
siano i mali per trarre da essi un bene più grande” (art. 412), presentando un
sofisma dal punto di vista
teoretico e un’indegnità dal punto di vista morale. La
prospettiva più plausibile con cui rispondere alla domanda sull’origine del
male esclude che la risposta possa essere Dio, nel senso che Dio voglia
direttamente o permetta indirettamente i singoli eventi negativi; esclude che
possa essere l’uomo in quanto autore del cosiddetto peccato originale, perché
l’uomo è la prima vittima dell’indeterminazione dell’essere che produce il
male, non l’autore; ed esclude infine che possa essere una natura del tutto priva
di un fine (come vorrebbe il materialismo ateo) perché la natura, oltre al
cancro, produce anche la mente e le mani che tendono al bene. La prospettiva
più plausibile con cui rispondere alla domanda sull’origine del male è la
medesima che sa rispondere all’origine del bene, cioè quella che rimanda
all’impasto originario di logos + caos che costituisce il mondo nella sua
concreta effettualità e che impone un modo nuovo di pensare Dio. In base a esso
occorre superare le secche della dogmatica tradizionale destinate
inevitabilmente a condurre molti all’ateismo, senza con ciò cadere nel nichilismo
che vede la natura solo come forza cieca priva di ogni direzione, e che quindi si
ritrova incapace di fondare l’etica della cura alla base della medicina e in
genere del vivere sociale
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di UAAR
- A ragion veduta (sito)
giovedì 20 novembre 2014
giovedì 20 novembre 2014
Di Valentino Salvatore
Umberto Veronesi, noto oncologo, firma un libro
di memorie dal titolo Il mestiere di uomo. Nel quale si
sofferma sulla sua vita e sul suo lavoro, a contatto diretto con la malattia e
la sofferenza. Repubblica riporta in anteprima un estratto, in
cui Veronesi racconta il suo rapporto con la religione e il passaggio dalla
fede alla non credenza. L’oncologo ricorda con stima e affetto un prete,
don Giovanni, che frequentava la famiglia. E persino la sua esperienza da
“inappuntabile chierichetto”. La sofferenza del sacerdote quando gli rivela di
aver perso la fede. Dopo tanti anni, per tragica fatalità, Veronesi incontra il
prete colpito da un cancro. Ih due rinnovano l’amicizia cordiale: “Iniziò così
un periodo di conversazioni e di scambio intellettuale sul senso della vita,
della scienza e della fede, che segnò per sempre il mio pensiero”. Il sacerdote
però ha ormai un male incurabile e Veronesi gli promette di non farlo soffrire:
“Mi fu molto grato per questo, perché non faceva parte di quei credenti che
ritengono che il dolore avvicini a Dio. La nostra ultima sera insieme mi disse:
«Ti ringrazio per la carità che dimostri, anche senza fede. C’è tanta fede
senza carità»”.
L’oncologo non ricorda il “primo giorno senza Dio”:
“sicuramente dopo l’esperienza della guerra non misi mai più piede in una
chiesa, ma il tramonto della fede era iniziato molto prima”. Il suo
anticonformismo fin da adolescente “mal si conciliava con l’integralismo
della dottrina cattolica che era stata il fondamento della mia educazione
di bambino”. È segnato dalla guerra, tocca “con mano anche la follia del
nazismo”: “non ho potuto non chiedermi, come fece Hannah Arendt prima e
Benedetto XVI molti anni dopo: «Dov’era Dio ad Auschwitz?»”. Anche la
scelta di dedicarsi alla medicina era “profondamente legata in me alla ricerca
dell’origine di quel male che il concetto di Dio non poteva spiegare”. Un male
“ancora più inspiegabile della guerra” diventa “il cancro”, contro cui si
dedica per alleviare in senso laico e concreto le sofferenze di tante persone.
“Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato una prova della
non esistenza di Dio“, dice Veronesi. “Come
puoi credere nella Provvidenza o nell’amore divino quando vedi un bambino
invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno davanti ai tuoi
occhi? Ci sono parole in qualche libro sacro del mondo, ci sono verità
rivelate, che possano lenire il dolore dei suoi genitori? Io credo di no, e
preferisco il silenzio, o il sussurro del «non so». Perché accade — e per i
bambini oggi succede sempre più spesso — che il dubbio diventi concreta
speranza e poi guarigione, e quando questo avviene, è pura gioia”, conclude il
chirurgo.
Una pagina toccante, che mostra l’umanità
di Veronesi e che dovrebbe far riflettere credenti e non sul problema
irrisolvibile del male (teodicea). Parole dal forte impatto emotivo,
maturate in tanti anni di lotta al cancro e a quotidiane quanto inspiegabili
sofferenze. Ma che non hanno mancato di scatenare la reazione dei polemisti
clericali. Con annessa distorsione e strumentalizzazione di considerazioni
che meriterebbero più attenzione. Ma il giornalismo confessionale in
Italia funziona purtroppo così.
C’è chi, come Andrea Mercenaro nella sua rubrica su Il Foglio,
lo schernisce accusandolo di aver “trovato la prova provata che Dio non
esiste”. Su Avvenire Gianni
Gennari parla di “pagina forte e anche bella, che conferma motivi di stima e
apprezzamento”. Ma c’è un ma: è “costruita con l’intento chiaro di
presentare la negazione di Dio come conseguenza logica dell’esperienza di vita”.
Sarebbe un “proselitismo personale ovviamente legittimo”. Così “legittimo”
che secondo Gennari proprio Veronesi dovrebbe fare invece l’apologia del
cristianesimo: “tanti uomini, anche uomini di scienza e cultura come Veronesi
potrebbero dire per esperienza ripetuta e personale che certe “parole” e proprio
di quella fede ebraico-cristiana cui egli allude, fondano almeno speranze, o
addirittura certezze di «verità che possono lenire» il dolore dell’umanità”.
Quindi fornire una risposta di comodo che soddisfi l’interlocutore credente.
Anche Mario Giordano su Libero sminuisce
il pensiero di Veronesi, scomodando la “logica” e bollandolo di “banalizzazione”.
Perché Dio permette il male? Vivaddio, “la risposta a questa domanda è così intima che non si
può discutere su un giornale”. E infatti Giordano si prende la briga di
rispondere su un giornale, con una serie di domande retoriche pretestuose che
puntano proprio alla banalizzazione del discorso, di cui accusa l’oncologo.
Non poteva mancare, nel finale, l’accusa all’ateo di volersi sostituire a
Dio (il punto centrale “non tanto la difficoltà ad ammettere l’esistenza di
Dio. Quanto la difficoltà ad ammettere che Dio non è lei”).
Tra le risposte c’è quella del
fisico Antonio Zichichi, che si lancia in una serie di elucubrazioni su Il Giornale per
“dimostrare” che Dio invece esiste e non è incompatibile con la scienza.
Parte da lontano, il terremoto di Lisbona che ispirò Voltaire per il Candido.
E non si accorge nemmeno di finire per vestire i panni di Pangloss, mentre
tenta di convincerci in conclusione che “la scienza però non ha mai scoperto
nulla che sia in contrasto con l’esistenza di Dio” e che “l’ateismo, quindi,
non è un atto di rigore logico teorico, ma un atto di fede nel nulla”.
Ma a ben vedere, è la sua idea di
scienza ad essere asservita alla religione, mentre
tenta di metabolizzare i dubbi e le crepe che proprio le innovazioni e le
scoperte scientifiche portano al quadro di presunta perfezione “logica”
della fede. Si pensi anche solo alla rivoluzione antropologica e filosofica
che ha portato l’evoluzionismo prima di tutto nel suo teorizzatore, Darwin,
che proprio da lì iniziò a diventare agnostico. Quella di Zichichi è piuttosto
una rassicurazione psicologica ad uso personale da uomo di cultura, condita con
espressioni altisonanti ma apodittiche e tutt’altro che scientifiche del
tipo “la speranza ha due colonne” ovvero fede e scienza; “se c’è una logica
deve esserci un Autore”; “Cristo è il simbolo della difesa dei valori della
vita e della dignità umana”.
Si può convenire sul fatto che
l’onere della prova spetti a chi afferma l’esistenza di Dio: evidentemente
per tante persone le argomentazioni, persino quelle pseudo-scientifiche di
Zichichi e dei suoi emuli, o gli esempi di vita “santa” non sono sufficienti.
Le repliche stizzite da parte cattolica scatenate dalla riflessione pacata
e sentita di Veronesi dimostrano, quelle sì in maniera lampante, come il
clima culturale in Italia è ancora profondamente immaturo quando si parla di
ateismo, tanto meno il giornalismo. Quando un non credente osa esprimere
anche sottovoce le sue idee, viene subissato di risposte da crociati punti nel
vivo, che spesso si riducono ad attacchi personali, denigrazione dell’ateismo
cui vengono attribuiti tutti i mali, apologetica spicciola che brandisce come
una clava la “ragione”, marketing delle conversioni,
indignazione perché non si affronta il tema come si “dovrebbe” fare (ovvero a
modo loro). Intanto giornali e televisioni (pure pubbliche) pullulano di
racconti positivi di testimonial che esaltano la fede o che tramite essa
trovano soluzioni e conforto, con un chiaro intento propagandistico.
L’asimmetria comunicativa è evidente e l’influenza
clericale sui media pervasiva. Veronesi invece rappresenta una mosca
bianca, che suscita fastidio e pronta reazione dai guardiani della morale
anche perché ha proposto un esempio di alternativa laica. Senza pagare il
pedaggio di una sudditanza troppo spesso pretesa. Ma quanto ha scritto andrebbe
preso per quello che è: non una sfida, ma l’esperienza personalissima di un
uomo che si confronta in maniera sofferta e rispettosa con il dolore e che
non vi trova motivi per credere. Tante persone si aggrappano alla fede per
aggirare certi dilemmi esistenziali o momenti di crisi. Tanti altri invece, da
atei o agnostici, non sono convinti, preferiscono vivere in maniera differente:
cercano la felicità, il significato e costruiscono la loro etica in questo
mondo e nelle relazioni con gli altri. Tutti, gli atei come i credenti,
meritano rispetto e comprensione, nella consapevolezza che non si potrà mai
essere d’accordo su certi temi ma si può e si deve convivere. Per questo
Veronesi ha tutta la nostra stima, nonché solidarietà per le ingenerose e
superficiali critiche ricevute, o per gli attacchi anche peggiori. Il suo
peccato? Aver mostrato che gli atei esistono. Anzi, che hanno delle
ragioni. E persino dei sentimenti
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Pubblicato: 20/11/2014 sull'Huffington
Post
Dopo Auschwitz il
cancro è la prova che Dio non esiste (Umberto Veronesi).
Carlo Eugenio Vitelli
Medico chirurgo
Caro professor Veronesi,
sono un chirurgo oncologo come lei e sarei ipocrita
nell'affermare che la sua influenza sul mondo scientifico contemporaneo è stata
negligible. Tuttavia non credo che lei debba per questo affrontare dei
temi relativi alla sfera del personale di ognuno di noi con delle
semplificazioni che, a mio modesto avviso, portano acqua alle persone che la
pensano diversamente da lei. Perché solo il cancro? Perché non il diabete o la paralisi
spastica o le malattie genetiche o la semplice trisomia 21 senza andare a
scomodare le malattie infettive che stanno flagellando quell'enorme continente
di esseri umani che è l'Africa. E perché non fermarci a pensare a quelle
persone che muoiono attraversando il nostro mare alla ricerca di una dignità
che solo il lavoro può dare? E cosa dire della fame nel mondo, dei milioni di
bambini che nascono con una speranza di vita di qualche anno, delle guerre,
della gente sgozzata, della ricchezza mondiale detenuta al 90% dal 5 % della
popolazione? Perché solo Auschwitz e non lo sterminio avvenuto, nello spazio di
un fine settimana, al confine tra Ruanda e Burundi? Perché non parlare degli
armeni, dei curdi, dei palestinesi dei rom?
Sarebbe diminutivo per una persona intelligente come lei
affidare la prova dell'esistenza di Dio alla sola esistenza di cose belle e
giuste. Il mondo è bellissimo, il nostro lavoro è bellissimo e ogni giorno che
passa sento sempre di più che la mia scelta di diventare medico e poi chirurgo
oncologo è stata la scelta giusta. Credo anch'io, che a guidare la mia mano
durante gli interventi, non sia, come dice lei, un angelo, ma la passione che
mi ha spinto a lasciare il mio paese per andare a specializzarmi negli Stati
Uniti. La stessa passione che dopo otto anni mi ha riportato a casa. Non credo
di dover rendere grazie a nessuno se non ai miei genitori che mi hanno
supportato e alla mia voglia di fare qualcosa con le "mie mani".
L'esistenza di Dio in un tema sulle "bruttezze e
ineguaglianze" del mondo contemporaneo (per non scomodare la storia) è
quello che verrebbe segnato dalla maestra delle elementari con la matita blu:
bello ma fuori tema. Credo fermamente che lo spermatozoo che feconda
quell'ovulo e precisamente quello, sia legato al semplice caso. Per citare Jacques
Monod (premio Nobel per la Medicina nel 1965) "L'antica alleanza è
infranta: l'uomo finalmente sa di essere solo nell'immensità indifferente
dell'universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere come il suo destino non è
scritto in nessun luogo" (Il caso e la necessità). La cosa
importante è che come esseri umani "generati dal caso" ci dotiamo e
sforziamo di implementare un codice "etico" condiviso che ci consenta
di vivere il nostro percorso terreno senza sconfinare nel territorio dei nostri
vicini e senza obbligarli a "vivere le nostre esperienze in una modalità
non condivisa" (non fare al tuo prossimo quello che non vuoi venga fatto a
te).
Per il resto, mi scusi prof., il
nostro lavoro, il nostro vissuto professionale e la nostra storia possono solo
servire come un minimo rinforzo alla tesi ma non possono essere l'elemento
fondante per dimostrare l'inesistenza di un essere superiore che lei vuole
chiamare Dio. Ma questa è solo la mia convinzione.
Forse Steve Jobs aveva ragione
raccomandando ai giovani studenti "siate folli e affamati". In
ultimo solo il nostro sogno o progetto portato avanti contro tutti e contro
tutte le difficoltà ci salverà.
Con stima
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