mercoledì 10 dicembre 2014

Umberto Veronesi: “Dopo Auschwitz, il cancro è la prova che Dio non esiste”



Pur essendo di formazione tecnico-scientifica (diploma di perito industriale e laurea in fisica) alcuni temi di carattere etico, filosofico, teologico (nascita, esistenza, morte, dio, universo, cancro, dolore, sofferenza …) mi hanno sempre affascinato, interrogato e spaventato. Ora, in particolare, che sto combattendo da 2 anni contro la progressione del mio Adenocarcinoma gastrico, queste riflessioni mi assillano con più frequenza, anche se non trovo soluzione. Forse ha ragione il filosofo Hans Jonas quando afferma nel suo saggio (Il concetto di Dio dopo Auschwitz): «Dio non intervenne, non perché non lo volle, ma perché non fu in grado di farlo» e « Concedendo all'uomo la libertà, Dio ha rinunziato alla sua potenza ».
Con queste premesse non potevo quindi non leggere e riflettere sull'articolo apparso su Repubblica  (17 novembre 2014) che riporta in anteprima un estratto del libro, “Il mestiere di uomo”, Einaudi (160 pagine, 18,50 euro), in cui il prof. Umberto Veronesi ripercorre le tappe della sua lunga meditazione sulla vita e sul dolore giungendo alla conclusione che ”Allo stesso modo di Auschwitz, il cancro è la prova della non esistenza di Dio". Ho letto le reazioni di alcuni commentatori come il teologo Vito Mancuso, il fisico Antonio Zichichi, ….
Umberto Veronesi (Milano, 28 novembre 1925) è un oncologo e politico italiano. Pioniere della chirurgia conservativa dei tumori mammari, fu tra i fondatori dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC), Direttore dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e fondatore dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO).
Copio e incollo alcuni brani dell'articolo di Repubblica:
[...] Non saprei dire qual è stato il mio primo giorno senza Dio. Sicuramente dopo l'esperienza della guerra non misi mai più piede in una chiesa, ma il tramonto della fede era iniziato molto prima. Durante il liceo fui bocciato due volte, ero un discolo in senso letterale: non andavo bene a scuola.
Oltre alle stragi dei combattimenti, ho toccato con mano anche la follia del nazismo e non ho potuto non chiedermi, come fece Hannah Arendt prima e Benedetto XVI molti anni dopo: «Dov'era Dio ad Auschwitz?». [...] La scelta di fare il medico è, profondamente legata in me alla ricerca dell'origine di quel male che il concetto di Dio non poteva spiegare. Da principio volevo fare lo psichiatra per capire in quale punto della mente nascesse la follia gratuita che poteva causare gli orrori di cui ero stato testimone. Avvicinandomi alla medicina, però, incappai in un male ancora più inspiegabile della guerra, il cancro, e sfidando la rassegnazione che allora imperava, decisi di indagare se attraverso la conoscenza e il sapere si potesse vincere quell'immenso e assurdo dolore. [...] Per chi il male non è un'idea astratta, ma è qualcosa che si vede, si tocca e, nel mio caso, ha un nome, tumore, diventa molto difficile identificarlo come una manifestazione del volere di Dio. Ho pensato spesso che il chirurgo, e soprattutto il chirurgo oncologo, abbia in effetti un rapporto speciale con il male. Il bisturi che affonda nel corpo di una donna o di un uomo lo tiene lontano dalla metafisica del dolore. In sala operatoria, quando il paziente si addormenta per l'anestesia, è a te, chirurgo, che affida la sua vita. L'ultimo sguardo di paura o fiducia è per te. E tu, chirurgo, non puoi pensare che un angelo custode guidi la tua mano quando incidi e inizi l'operazione, quando in pochi istanti devi decidere che cosa fare, quanto asportare, come fermare un'emorragia.
Ci sei solo tu in quei momenti, solo con la tua capacità, la tua concentrazione, la tua lucidità, la tua esperienza, i tuoi studi, il tuo amore (o anche con la tua carità come la chiamava don Giovanni) per la persona malata, sia questa il prete che ha consolato le tue lacrime quando eri bambino, o la mamma che sta per avere un figlio che voleva allattare proprio con quel seno che tu le hai appena tolto, o un paziente sconosciuto che da te si aspettava soltanto la guarigione, che non è arrivata. Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato una prova della non esistenza di Dio. Ho sviluppato questa convinzione soprattutto all'Istituto nazionale tumori di Milano, dove ogni tanto frequentavo il reparto di pediatria. Come puoi credere nella Provvidenza o nell'amore divino quando vedi un bambino invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi? Ci sono parole in qualche libro sacro del mondo, ci sono verità rivelate, che possano lenire il dolore dei suoi genitori? Io credo di no, e preferisco il silenzio, o il sussurro del «non so». Perché accade – e per i bambini oggi succede sempre più spesso – che il dubbio diventi concreta speranza e poi guarigione, e quando questo avviene, è pura gioia.
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L'articolo di Repubblica ha scatenato varie reazioni che cito e riporto:
Veronesi e il male che fa perdere la fede in Dio, del teologo Vito Mancuso, in “la Repubblica” del 19 novembre 2014. Umberto Veronesi ha spiegato perché non crede in Dio: la perdita della fede a causa della presenza del male di cui ha parlato su questo giornale è un’esperienza comune a molti, descritta in numerose opere filosofiche e letterarie del passato e sorgente di perenne inquietudine per i cristiani. Si tratta infatti di un’esperienza peculiare del mondo occidentale formato dal cristianesimo, perché nei termini raccontati da Veronesi essa non potrebbe avvenire né nell’islam, né nell’induismo e in nessun’altra tradizione religiosa. Per negare Dio tale ateismo si nutre dell’argomento del bene, nel senso che la presenza del male nel mondo è per esso in aperto contrasto con un Dio la cui essenza è pensata come interamente buona, come amore, oltre che come onnipotenza. Se Dio è del tutto buono e ci ama, e se è al contempo onnipotente, il male nel mondo non dovrebbe esistere; ma visto che il male esiste, a non esistere è il Dio buono e onnipotente di cui
parla il cristianesimo: ecco la conclusione di Veronesi e di molti occidentali prima di lui.
Invece per le prospettive nelle quali Dio, oltre a essere bene, è anche capacità di male, la presenza del male non contraddice in alcun modo la sua esistenza: è semmai solo una delle molteplici manifestazioni di una somma e imperscrutabile onnipotenza a cui occorre conformarsi. Non è quindi un caso che l’ateismo come fenomeno di massa sia sorto in occidente e non altrove. Scriveva Simone Weil, una delle più acute intelligenze mistiche del nostro tempo, alla fine del ‘42: “Sento una lacerazione, sia nell’intelligenza
che al centro del cuore, che si va aggravando senza sosta a causa dell’incapacità di pensare insieme, nella verità, la sventura degli uomini, la perfezione di Dio e il legame tra l’una e l’altra cosa”. Questa è la vera e propria aporia di cui soffre il cristianesimo. Il che, peraltro, non dimostra che il cristianesimo sia falso, perché a essere aporetica e contraddittoria è l’esistenza stessa, così che ogni credo religioso o filosofico che attesta la contraddizione serve la vita, mentre quei sistemi che perseguono in primo luogo la coerenza logica sono solo dottrine e ideologie artificiose. Ha scritto il giovane Hegel: “Contradictio est regula veri, non contradictio falsi”, la contraddizione è la regola del vero, la non contraddizione del falso. Il punto è che vi sono due dati di fatto, entrambi veri, ma inconciliabili allo stato attuale della mente umana (un po’ come la teoria della relatività e la meccanica quantistica, entrambe sperimentate innumerevoli volte, ma
inconciliabili teoreticamente l’una con l’altra): l’esistenza effettiva del male, sia fisico sia morale; e l’esistenza effettiva del bene, sia fisico sia morale. Si tratta di pensare insieme i due dati, non uno solo di essi. Era quanto faceva Boezio nella sua cella di Pavia prima che Teodorico lo facesse giustiziare: “Se c’è Dio, da dove vengono i mali? E da dove vengono i mali, se Dio non c’è?” ( Consolazione della filosofia I, 4). Se Dio c’è ed è quell’amore onnipotente di cui parla il cristianesimo, perché, citando Veronesi, “un bambino viene invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno?”. Ma se Dio non c’è, da dove vengono le mani del medico che lo curano, la scienza che guida la sua mente e la passione morale che lo porta a operare? Qualcuno potrebbe rispondere dall’uomo e dalla sua ragione e direbbe bene, ma non sarebbe un argomento conclusivo, perché rimane da spiegare da dove vengono l’uomo e la sua ragione. Se consideriamo il punto di partenza del percorso cosmico 13,82 miliardi di anni fa, e il punto cui oggi siamo arrivati in termini di accumulo di organizzazione e complessità, è ben difficile attribuire tutto a un mero susseguirsi di casualità fortunate, tanto enormi sono le probabilità contrarie al darsi della vita e dell’intelligenza nel cosmo: tale attribuzione richiede un investimento di energia mentale almeno pari a quello che ipotizza Dio. La
realtà è che di fronte al dato della vita (che è: cancro + mani che lo curano, caos +logos) appaiono insostenibili entrambi i dogmatismi: quello di chi nega ogni forma di logica al governo del mondo e quello di chi vede tale logica in ogni evento, come fa l’attuale Catechismo cattolico dicendo che “Dio permette che ci siano i mali per trarre da essi un bene più grande” (art. 412), presentando un sofisma dal punto di vista
teoretico e un’indegnità dal punto di vista morale. La prospettiva più plausibile con cui rispondere alla domanda sull’origine del male esclude che la risposta possa essere Dio, nel senso che Dio voglia direttamente o permetta indirettamente i singoli eventi negativi; esclude che possa essere l’uomo in quanto autore del cosiddetto peccato originale, perché l’uomo è la prima vittima dell’indeterminazione dell’essere che produce il male, non l’autore; ed esclude infine che possa essere una natura del tutto priva di un fine (come vorrebbe il materialismo ateo) perché la natura, oltre al cancro, produce anche la mente e le mani che tendono al bene. La prospettiva più plausibile con cui rispondere alla domanda sull’origine del male è la medesima che sa rispondere all’origine del bene, cioè quella che rimanda all’impasto originario di logos + caos che costituisce il mondo nella sua concreta effettualità e che impone un modo nuovo di pensare Dio. In base a esso occorre superare le secche della dogmatica tradizionale destinate inevitabilmente a condurre molti all’ateismo, senza con ciò cadere nel nichilismo che vede la natura solo come forza cieca priva di ogni direzione, e che quindi si ritrova incapace di fondare l’etica della cura alla base della medicina e in genere del vivere sociale
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di UAAR - A ragion veduta (sito)
giovedì 20 novembre 2014
Di Valentino Salvatore
Umberto Veronesi, noto oncologo, firma un libro di memorie dal titolo Il mestiere di uomo. Nel quale si sofferma sulla sua vita e sul suo lavoro, a contatto diretto con la malattia e la sofferenza. Repubblica riporta in anteprima un estratto, in cui Veronesi racconta il suo rapporto con la religione e il passaggio dalla fede alla non credenza. L’oncologo ricorda con stima e affetto un prete, don Giovanni, che frequentava la famiglia. E persino la sua esperienza da “inappuntabile chierichetto”. La sofferenza del sacerdote quando gli rivela di aver perso la fede. Dopo tanti anni, per tragica fatalità, Veronesi incontra il prete colpito da un cancro. Ih due rinnovano l’amicizia cordiale: “Iniziò così un periodo di conversazioni e di scambio intellettuale sul senso della vita, della scienza e della fede, che segnò per sempre il mio pensiero”. Il sacerdote però ha ormai un male incurabile e Veronesi gli promette di non farlo soffrire: “Mi fu molto grato per questo, perché non faceva parte di quei credenti che ritengono che il dolore avvicini a Dio. La nostra ultima sera insieme mi disse: «Ti ringrazio per la carità che dimostri, anche senza fede. C’è tanta fede senza carità»”.
L’oncologo non ricorda il “primo giorno senza Dio”: “sicuramente dopo l’esperienza della guerra non misi mai più piede in una chiesa, ma il tramonto della fede era iniziato molto prima”. Il suo anticonformismo fin da adolescente “mal si conciliava con l’integralismo della dottrina cattolica che era stata il fondamento della mia educazione di bambino”. È segnato dalla guerra, tocca “con mano anche la follia del nazismo”: “non ho potuto non chiedermi, come fece Hannah Arendt prima e Benedetto XVI molti anni dopo: «Dov’era Dio ad Auschwitz?»”. Anche la scelta di dedicarsi alla medicina era “profondamente legata in me alla ricerca dell’origine di quel male che il concetto di Dio non poteva spiegare”. Un male “ancora più inspiegabile della guerra” diventa “il cancro”, contro cui si dedica per alleviare in senso laico e concreto le sofferenze di tante persone. “Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato una prova della non esistenza di Dio“, dice Veronesi. “Come puoi credere nella Provvidenza o nell’amore divino quando vedi un bambino invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi? Ci sono parole in qualche libro sacro del mondo, ci sono verità rivelate, che possano lenire il dolore dei suoi genitori? Io credo di no, e preferisco il silenzio, o il sussurro del «non so». Perché accade — e per i bambini oggi succede sempre più spesso — che il dubbio diventi concreta speranza e poi guarigione, e quando questo avviene, è pura gioia”, conclude il chirurgo.
Una pagina toccante, che mostra l’umanità di Veronesi e che dovrebbe far riflettere credenti e non sul problema irrisolvibile del male (teodicea). Parole dal forte impatto emotivo, maturate in tanti anni di lotta al cancro e a quotidiane quanto inspiegabili sofferenze. Ma che non hanno mancato di scatenare la reazione dei polemisti clericali. Con annessa distorsione e strumentalizzazione di considerazioni che meriterebbero più attenzione. Ma il giornalismo confessionale in Italia funziona purtroppo così.
C’è chi, come Andrea Mercenaro nella sua rubrica su Il Foglio, lo schernisce accusandolo di aver “trovato la prova provata che Dio non esiste”. Su Avvenire Gianni Gennari parla di “pagina forte e anche bella, che conferma motivi di stima e apprezzamento”. Ma c’è un ma: è “costruita con l’intento chiaro di presentare la negazione di Dio come conseguenza logica dell’esperienza di vita”. Sarebbe un “proselitismo personale ovviamente legittimo”. Così “legittimo” che secondo Gennari proprio Veronesi dovrebbe fare invece l’apologia del cristianesimo: “tanti uomini, anche uomini di scienza e cultura come Veronesi potrebbero dire per esperienza ripetuta e personale che certe “parole” e proprio di quella fede ebraico-cristiana cui egli allude, fondano almeno speranze, o addirittura certezze di «verità che possono lenire» il dolore dell’umanità”. Quindi fornire una risposta di comodo che soddisfi l’interlocutore credente.
Anche Mario Giordano su Libero sminuisce il pensiero di Veronesi, scomodando la “logica” e bollandolo di “banalizzazione”. Perché Dio permette il male? Vivaddio, “la risposta a questa domanda è così intima che non si può discutere su un giornale”. E infatti Giordano si prende la briga di rispondere su un giornale, con una serie di domande retoriche pretestuose che puntano proprio alla banalizzazione del discorso, di cui accusa l’oncologo. Non poteva mancare, nel finale, l’accusa all’ateo di volersi sostituire a Dio (il punto centrale “non tanto la difficoltà ad ammettere l’esistenza di Dio. Quanto la difficoltà ad ammettere che Dio non è lei”).
Tra le risposte c’è quella del fisico Antonio Zichichi, che si lancia in una serie di elucubrazioni su Il Giornale per “dimostrare” che Dio invece esiste e non è incompatibile con la scienza. Parte da lontano, il terremoto di Lisbona che ispirò Voltaire per il Candido. E non si accorge nemmeno di finire per vestire i panni di Pangloss, mentre tenta di convincerci in conclusione che “la scienza però non ha mai scoperto nulla che sia in contrasto con l’esistenza di Dio” e che “l’ateismo, quindi, non è un atto di rigore logico teorico, ma un atto di fede nel nulla”.
Ma a ben vedere, è la sua idea di scienza ad essere asservita alla religione, mentre tenta di metabolizzare i dubbi e le crepe che proprio le innovazioni e le scoperte scientifiche portano al quadro di presunta perfezione “logica” della fede. Si pensi anche solo alla rivoluzione antropologica e filosofica che ha portato l’evoluzionismo prima di tutto nel suo teorizzatore, Darwin, che proprio da lì iniziò a diventare agnostico. Quella di Zichichi è piuttosto una rassicurazione psicologica ad uso personale da uomo di cultura, condita con espressioni altisonanti ma apodittiche e tutt’altro che scientifiche del tipo “la speranza ha due colonne” ovvero fede e scienza; “se c’è una logica deve esserci un Autore”; “Cristo è il simbolo della difesa dei valori della vita e della dignità umana”.
Si può convenire sul fatto che l’onere della prova spetti a chi afferma l’esistenza di Dio: evidentemente per tante persone le argomentazioni, persino quelle pseudo-scientifiche di Zichichi e dei suoi emuli, o gli esempi di vita “santa” non sono sufficienti. Le repliche stizzite da parte cattolica scatenate dalla riflessione pacata e sentita di Veronesi dimostrano, quelle sì in maniera lampante, come il clima culturale in Italia è ancora profondamente immaturo quando si parla di ateismo, tanto meno il giornalismo. Quando un non credente osa esprimere anche sottovoce le sue idee, viene subissato di risposte da crociati punti nel vivo, che spesso si riducono ad attacchi personali, denigrazione dell’ateismo cui vengono attribuiti tutti i mali, apologetica spicciola che brandisce come una clava la “ragione”, marketing delle conversioni, indignazione perché non si affronta il tema come si “dovrebbe” fare (ovvero a modo loro). Intanto giornali e televisioni (pure pubbliche) pullulano di racconti positivi di testimonial che esaltano la fede o che tramite essa trovano soluzioni e conforto, con un chiaro intento propagandistico.
L’asimmetria comunicativa è evidente e l’influenza clericale sui media pervasiva. Veronesi invece rappresenta una mosca bianca, che suscita fastidio e pronta reazione dai guardiani della morale anche perché ha proposto un esempio di alternativa laica. Senza pagare il pedaggio di una sudditanza troppo spesso pretesa. Ma quanto ha scritto andrebbe preso per quello che è: non una sfida, ma l’esperienza personalissima di un uomo che si confronta in maniera sofferta e rispettosa con il dolore e che non vi trova motivi per credere. Tante persone si aggrappano alla fede per aggirare certi dilemmi esistenziali o momenti di crisi. Tanti altri invece, da atei o agnostici, non sono convinti, preferiscono vivere in maniera differente: cercano la felicità, il significato e costruiscono la loro etica in questo mondo e nelle relazioni con gli altri. Tutti, gli atei come i credenti, meritano rispetto e comprensione, nella consapevolezza che non si potrà mai essere d’accordo su certi temi ma si può e si deve convivere. Per questo Veronesi ha tutta la nostra stima, nonché solidarietà per le ingenerose e superficiali critiche ricevute, o per gli attacchi anche peggiori. Il suo peccato? Aver mostrato che gli atei esistono. Anzi, che hanno delle ragioni. E persino dei sentimenti
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Pubblicato: 20/11/2014 sull'Huffington Post
Dopo Auschwitz il cancro è la prova che Dio non esiste (Umberto Veronesi).
Carlo Eugenio Vitelli Medico chirurgo
Caro professor Veronesi,
sono un chirurgo oncologo come lei e sarei ipocrita nell'affermare che la sua influenza sul mondo scientifico contemporaneo è stata negligible. Tuttavia non credo che lei debba per questo affrontare dei temi relativi alla sfera del personale di ognuno di noi con delle semplificazioni che, a mio modesto avviso, portano acqua alle persone che la pensano diversamente da lei. Perché solo il cancro? Perché non il diabete o la paralisi spastica o le malattie genetiche o la semplice trisomia 21 senza andare a scomodare le malattie infettive che stanno flagellando quell'enorme continente di esseri umani che è l'Africa. E perché non fermarci a pensare a quelle persone che muoiono attraversando il nostro mare alla ricerca di una dignità che solo il lavoro può dare? E cosa dire della fame nel mondo, dei milioni di bambini che nascono con una speranza di vita di qualche anno, delle guerre, della gente sgozzata, della ricchezza mondiale detenuta al 90% dal 5 % della popolazione? Perché solo Auschwitz e non lo sterminio avvenuto, nello spazio di un fine settimana, al confine tra Ruanda e Burundi? Perché non parlare degli armeni, dei curdi, dei palestinesi dei rom?
Sarebbe diminutivo per una persona intelligente come lei affidare la prova dell'esistenza di Dio alla sola esistenza di cose belle e giuste. Il mondo è bellissimo, il nostro lavoro è bellissimo e ogni giorno che passa sento sempre di più che la mia scelta di diventare medico e poi chirurgo oncologo è stata la scelta giusta. Credo anch'io, che a guidare la mia mano durante gli interventi, non sia, come dice lei, un angelo, ma la passione che mi ha spinto a lasciare il mio paese per andare a specializzarmi negli Stati Uniti. La stessa passione che dopo otto anni mi ha riportato a casa. Non credo di dover rendere grazie a nessuno se non ai miei genitori che mi hanno supportato e alla mia voglia di fare qualcosa con le "mie mani".
L'esistenza di Dio in un tema sulle "bruttezze e ineguaglianze" del mondo contemporaneo (per non scomodare la storia) è quello che verrebbe segnato dalla maestra delle elementari con la matita blu: bello ma fuori tema. Credo fermamente che lo spermatozoo che feconda quell'ovulo e precisamente quello, sia legato al semplice caso. Per citare Jacques Monod (premio Nobel per la Medicina nel 1965) "L'antica alleanza è infranta: l'uomo finalmente sa di essere solo nell'immensità indifferente dell'universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere come il suo destino non è scritto in nessun luogo" (Il caso e la necessità). La cosa importante è che come esseri umani "generati dal caso" ci dotiamo e sforziamo di implementare un codice "etico" condiviso che ci consenta di vivere il nostro percorso terreno senza sconfinare nel territorio dei nostri vicini e senza obbligarli a "vivere le nostre esperienze in una modalità non condivisa" (non fare al tuo prossimo quello che non vuoi venga fatto a te).
Per il resto, mi scusi prof., il nostro lavoro, il nostro vissuto professionale e la nostra storia possono solo servire come un minimo rinforzo alla tesi ma non possono essere l'elemento fondante per dimostrare l'inesistenza di un essere superiore che lei vuole chiamare Dio. Ma questa è solo la mia convinzione.
Forse Steve Jobs aveva ragione raccomandando ai giovani studenti "siate folli e affamati". In ultimo solo il nostro sogno o progetto portato avanti contro tutti e contro tutte le difficoltà ci salverà.
Con stima

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