Trovo nel blog di Umberto Veronesi questo interessante
post dal titolo: Non
si gioca a dadi con la vita dei malati
E' immorale che quando si
arriva alla sperimentazione clinica i pazienti vengano divisi tra chi viene
curato e chi non viene curato.
E’ immorale. Creando sensazione, l’ha affermato il
Comitato Etico di questa Fondazione, e io lo ripeto, sempre più convinto che
non dobbiamo abituarci a procedure e a sistemi che sembrano perfezionare i
percorsi scientifici, ma in realtà vanno contro il bene dei pazienti.
Sì, è immorale che quando si arriva alla sperimentazione
clinica – vale a dire la sperimentazione sull’uomo – i pazienti vengano divisi
tra chi viene curato e chi non viene curato. I malati vengono assegnati
casualmente, tirando a sorte, a due distinti gruppi. I primi prendono i nuovi
farmaci, potenzialmente e quasi sempre più efficaci dei trattamenti standard
somministrati agli altri. Se una cura non esiste, al secondo gruppo (il
cosiddetto «gruppo di controllo»), viene dato un placebo, cioè una sostanza
inerte, che equivale a un non-trattamento.
Trovo inaccettabile che si giochi a dadi con i malati, e
voglio ricordare che quando nel lontano 1973
io e il grande filosofo della scienza Giulio Maccacaro fondammo
all’Istituto dei Tumori di Milano il primo comitato etico in Italia, scrivemmo
sulla porta della stanza in cui ci riunivamo una frase che riassumeva in modo
efficace i doveri che la scienza e la medicina hanno verso l’uomo: «Tutto è
concesso all’uso della scienza per l’uomo; tutto è negato all’uso dell’uomo per
la scienza».
La ricerca scientifica deve progredire per il bene
dell’umanità, ma a mio parere nulla può essere anteposto al bene del malato,
per quanto nobili possano essere le intenzioni e per quanto grandi possano
essere gli obiettivi da raggiungere. A volte, per non imboccare una strada
cattiva, alla scienza può essere utile ricordare che cosa succede quando si
abbandona l’uomo. Non voglio citare i crimini dei medici nazisti, e mi limito a
ricordare una storia che è successa in tempi abbastanza recenti nella civile e
democratica America. Porta il nome di una piccola cittadina dell’Alabama,
Tuskegee, ed è la storia della sifilide non curata. Fu addirittura il servizio
pubblico della sanità ad avviare la sperimentazione, nel 1932. Si voleva
seguire l’evoluzione naturale della malattia. Vennero reclutati, con la scusa
di offrirgli cure contro il «sangue cattivo», 399 inconsapevoli afroamericani
malati di sifilide, e altri 201 ai quali la malattia fu inoculata: un vero
crimine, perpetrato su gente povera e quasi analfabeta, in una società
razzista.
Nel 1940 fu scoperta l’efficacia della penicillina per
curare e guarire la sifilide, ma lo studio (definito in seguito come «il più
infame nella ricerca biomedica nella storia degli Stati Uniti») andò avanti per
decenni. Inutile raccontare le
sofferenze e la morte di tanti uomini. E la funesta catena della malattia
comunicata alle donne, le quali a loro volta la trasmisero ai loro nascituri.
Vite perdute. Finalmente nel 1972 una fuga di notizie portò alla ribalta
nazionale l’inqualificabile studio. Ci
fu un’indagine approfondita, ma non si
sa se i responsabili di questa ricerca «deviata» pagarono il prezzo della loro
colpa. Il 12 luglio 1974 fu approvato il National Research Act, che dettava
regole stringenti e istituiva una commissione per la protezione dei soggetti
umani nella ricerca biomedica.
Nel 1997 il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton,
chiese perdono alle vittime e alla nazione americana. Ma non c’è un lieto fine. I Paesi del
benessere e della democrazia forse ormai riescono a tenere in pugno la scienza
delle ambizioni sbagliate e degli affari multimiliardari, ma i Paesi più poveri
sono lì inermi, esposti ad ogni abuso. La chiamano «globalizzazione della
ricerca», ma è un’altra cosa.
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