venerdì 22 febbraio 2013

La cura parte da un racconto


Sergio Harari
Trovo nella rassegna stampa dello IOV e dell'Azienda ospedaliera di Padova un interessante articolo di Sergio Harari, Direttore Unità operativa di Pneumologia Ospedale San Giuseppe di Milano, pubblicato nel Sole 24 Ore Sanità del 19 febbraio 2013, dal titolo "Perché la cura parte da un racconto".
L'occasione è la nascita dell' «Associazione Peripato», una APS di cui Harari è presidente,  per la formazione e la ricerca in campo biomedico, socio-sanitario, ambientale, culturale e per la promozione dei diritti umani e sociali.
Dal sito dell'Associazione riporto la biografia di Sergio Harari: si è laureato in medicina e chirurgia e  specializzato a Milano in Malattie dell'apparato respiratorio, Anestesia e Rianimazione, Chemioterapia e ha trascorso periodi di formazione post-laurea in Francia e America. È stato uno dei primi medici a occuparsi di trapianti polmonari in Italia e ha attivamente contribuito all'avvio dell'attività di trapianto polmonare nel nostro Paese. Nel 1999 ha fondato l'Unità Operativa di Pneumologia all'Ospedale San Giuseppe di Milano, che è oggi un Centro di riferimento nazionale per la diagnosi e la cura di malattie polmonari rare. È autore di numerose pubblicazioni su riviste internazionali peer-reviewed ( valutazione tra pari o revisione dei pari) e di testi specialistici. All'attività assistenziale clinica associa attività didattica e di pubblicazione e divulgazione scientifica anche su temi di politica sanitaria, sociali e ambientali.
Sottolineo e concordo con queste tre frasi del dottor Harari: La mancanza di contatto umano, conseguenza di una medicina dove la tecnologia sembra aver prevalso su tutto, ha fatto perdere ai dottori la consapevolezza del potere anche taumaturgico del "gesto" medico, di come la storia clinica di un paziente possa cambiare sapendolo "assistere" nel suo percorso di malattia. Gli ospedali non sono più fatti per questo, la cura è concentrata in un asettico tecnicismo, e la medicina moderna ha assecondato questa pericolosa deriva. Recuperare la dimensione umana non sarà facile ma è indispensabile per ricostruire un percorso di comunicazione tra cittadini e Sanità.

Perché la cura parte da un racconto
Marguerite Yourcenar in "Memorie di Adriano" faceva dire al suo protagonista: «L'occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povera amalgama di linfa e sangue». Oggi la medicina non si occupa di umori ma di pezzi di uomini e non di persone, c'è lo specialista della caviglia, della spalla, della valvola cardiaca, dell'asma ma non della bronchite e viceversa. Ma la medicina non è questa e credere che lo sia è come vedere attraverso una lente deformante rapporti, aspettative, problemi. Una prospettiva fuorviante anche professionalmente; saper ascoltare, osservare, capire, intuire fa ancora parte integrante dell'arte medica.
L' «Associazione Peripato» è nata recentemente per ricongiungere medicina e cultura e, attraverso la cultura, ricostruire quel tessuto di relazioni e sensibilità all'ascolto che la medicina ha perso per strada.
Un tempo, quando Aristotele passeggiava lungo i peripatoi, i colonnati del suo liceo ateniese, insegnava non solo filosofia ma anche biologia e anatomia; allora scienza e filosofia sembravano un unicum indissolubile. Oggi in medicina, con le metodologie moderne e avanzate, si fanno diagnosi in tempi più rapidi e si guariscono malattie un tempo incurabili, ima ci si dimentica il resto. Un resto fatto di tempo per parlare con il malato, stare con lui, discutere i suoi problemi e capire cosa gli sta accadendo, non solo guardando la stampata dei suoi ultimi esami del sangue.
Siddhartha Mukherjee, un giovane oncologo americano, nel suo libro "L'imperatore del male", vincitore del premio Pulitzer 2011, racconta la storia della battaglia contro il cancro dagli antichi egizi a oggi e descrive molto bene tanti aspetti della medicina e del rapporto medico-paziente. In uno di questi passaggi scrive: «La medicina comincia con un racconto. I pazienti raccontano storie per descrivere una malattia, i dottori raccontano storie per comprenderle. La scienza racconta la propria storia per spiegare la malattia». Forse ci siamo dimenticati di tutto questo, forse ci siamo persi per strada un pezzo del significato della medicina.
Non è un problema del singolo medico, è una deriva della medicina moderna, il prezzo da pagare per un'arte diventata scienza, prima che qualcuno se ne rendesse conto, la più umanistica tra le scienze. Ma il paziente non è un'equazione matematica, e non vince il dottore che risolve il problema prima e meglio, o il chirurgo che opera con minori perdite di sangue, in tempi più brevi e con una cicatrice più corta, o almeno non è solo così. Altrimenti non si spiegherebbe perché molti pazienti, anche sofferenti per gravi malattie, migliorano e addirittura sopravvivono più a lungo quando assumono un placebo, ovvero una sostanza inerte. La medicina in questi ultimi decenni è sembrata prendere la strada riservata ad altre scienze, un percorso fatto di tecnicismo e razionalità ma, come Tiziano Terzani in "Un altro giro di giostra" faceva dire allo psicanalista Erich Fromm: «Il paziente non lo sa, ma il vero medico è quello che ha dentro di sé. E noi abbiamo successo quando diamo a quel medico la possibilità di fare il suo lavoro».
La mancanza di contatto umano, conseguenza di una medicina dove la tecnologia sembra aver prevalso su tutto, ha fatto perdere ai dottori la consapevolezza del potere anche taumaturgico del "gesto" medico, di come la storia clinica di un paziente possa cambiare sapendolo "assistere" nel suo percorso di malattia. Gli ospedali non sono più fatti per questo, la cura è concentrata in un asettico tecnicismo, e la medicina moderna ha assecondato questa pericolosa deriva. Recuperare la dimensione umana non sarà facile ma è indispensabile per ricostruire un percorso di comunicazione tra cittadini e Sanità.
Nel libro "Medici umani, pazienti guerrieri. La cura è questa", scritto a quattro mari da Giangiacomo Schiavi e da Gianni Bonadonna, uno dei più famosi oncologi al inondo che colpito da un ictus è stato ridotto all'infermità, si legge: «Per dare una speranza bastano un gesto, un sorriso, la fiducia in un medico, la vicinanza di una persona cara. L'attenzione e l'ascolto sono una grande cura». Chi, anche medico, ha avuto l'occasione di essere malato e di stare "dall'altra parte" ne ha avuto la prova diretta. Riavvicinare la cultura umanistica alla medicina in chiave moderna, aiutando a ricongiungere la medicina all'uomo, superando barriere costruite in decenni di rapidissima evoluzione delle cure e delle tecnologie disgiunte da una cultura che si è persa su un binario ormai troppo lontano e separato: Peripato vorrebbe questo. E un tentativo per rimettere in linea due binari che non possono più essere disgiunti e che tracciano la strada comune della nostra vita.

L'associazione è stata presentata al pubblico lo scorso ottobre in occasione di una tavola rotonda con un importante filosofo della scienza, un grande immunologo e un comico, per riaffermare la trasversalità di arte, cultura e medicina. L'iniziativa era stata preceduta da un sondaggio online sul rapporto medico-paziente che in pochi giorni aveva collezionato oltre 2.500 click. Il 21 febbraio prossimo Peripato organizza a Milano con Fetrinelli, presso la libreria di Piazza del Duomo, un "brain storming" sui virus: il giornalista medico Edoardo Rosati modererà due scienziati, Alberto Mantovani e Giovanni Ippolito, e due scrittori di fiction, Gianfranco Manfredi e Gianfranco Nerozzi, sull'eterna paura della pandemia virale, in un dibattito a cavallo tra scienza e fantascienza. E inoltre in programma per il prossimo ottobre a Milano un festival della Salute, nel quale sempre in modo originale combinare scienza, divulgazione, cultura e medicina. Peripato vuole fare la sua parte facendo cultura a 360 gradi e creando una diversa sensibilità alla Sanità nei cittadini e negli operatori, con l'aiuto di chiunque abbia voglia di mettersi in gioco su questi temi.

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