sabato 3 dicembre 2011

Riposa in pace Lucio Magri

Il suicidio assistito di Lucio Magri, nato a Ferrara il 19 agosto 1932,  giornalista e politico  italiano, avvenuto il 28 novembre nella sede della Onlus "Dignitas" di Zurigo, è stato oggetto di numerosi commenti da parte dei media italiani (vedi i tre articoli più sotto).
Da parte mia nessun commento moralistico, etico e religioso, solo informazione, riporto due aforismi e un invito a non aver paura della morte.  La paura della morte infatti è più frequente tra i giovani che tra gli anziani. In uno studio sui malati terminali (Hinton, 1967) tra i soggetti con età maggiore di 60 anni solo un terzo mostrava ansia per la propria morte, mentre i due terzi del campione di individui con età inferiore ai 50 anni mostrava reazioni di estrema angoscia per la propria morte.
Afferma Anna Oliverio Ferraris, psicologa e psicoterapeuta, alla domanda di una studentessa sulla paura della morte (clicca qui): In realtà tutte le paure originano da quella paura fondamentale, dalla consapevolezza che noi siamo persone finite e che un giorno moriremo. Questo è l'elemento irrisolvibile che crea tutte le altre paure. La soluzione consiste nel rassegnarci all’idea di doverci preparare a questo evento ultimo, accettando la propria condizione di esseri che nascono e che muoiono. Dobbiamo proiettarci in un sistema più vasto, perché noi facciamo parte del genere umano. Dovremmo mantenere un pizzico di quel senso di onnipotenza che appartiene ai bambini nei primi anni di vita. Un bambino pensa di non morire, pensa che muoiano gli altri, poi, man mano, si rende conto che anche per lui la morte è inevitabile.
Diceva Blaise Pascal: Gli uomini, non avendo nessun rimedio contro la morte, la miseria e l'ignoranza, hanno stabilito, per essere felici, di non pensarci mai. 
John Donne: Ogni morte d'uomo mi diminuisce, perché io partecipo all'umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona anche per te. 

Due parole sull'associazione Dignitas che ha aiutato Magri a morire:  è una Onlus svizzera che aiuta le persone con malattie terminali e gravi malattie fisiche e mentali a morire, assistite da medici e infermieri qualificati. I costi che Dignitas richiede per un suicidio assistito sono:  € 4.000 (3.182 £ / $ 5,263.16) per la preparazione e l'assistenza al suicidio o  € 7.000 (5.568 £ / $ 9,210.53) tutto compreso ( funerali, spese mediche e tasse).
Pur essendo una organizzazione non-profit, Dignitas ha ripetutamente rifiutato di publicizzare i suoi bilanci.
Chi volesse acquisire ulteriori informazioni su  Dignitas clicca qui
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Riporto cinque articoli sulla morte di Magri: il primo  di Simonetta Fiori apparso su Repubblica, il secondo di Fabrizio Caccia sul Corriere della Sera,  il terzo  di Gabrielle Villa sul Il Giornale, il quarto di Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano e il quinto di Paolo Flores d’Arcais ancora su Il Fatto Quotidiano.
Gli articoli di Travaglio contrario al gesto di Magri e di Flores d'Arcais favorevole, sono, a mio avviso, quelli che più ci interrogano e ci invitano a riflettere.

LO STRAZIANTE “SUICIDIO ASSISTITO” DEL FONDATORE DEL "MANIFESTO" LUCIO MAGRI
mar, nov 29, 2011
Simonetta Fiori per “la Repubblica“
E alla fine la telefonata è arrivata. Sì, tutto finito. Ora si rientra in Italia. Alle pompe funebri aveva provveduto lo stesso Lucio Magri, poco prima di partire per la Svizzera. Era il suo ultimo viaggio, così voleva che fosse. Non ce la faceva a morire da solo, così il suo amico medico l´avrebbe aiutato. Là il suicidio assistito è una pratica lecita, anche se poi bisogna vedere nei dettagli, se ci sono proprio le condizioni. Ma ora che importa? Che volete sapere? Non fate troppi pettegolezzi, l´aveva già detto qualcun altro ma in questi casi non conta l´originalità.
S´era raccomandato con i suoi amici più cari, quelli d´una vita, i compagni del Manifesto. Non voglio funerali, per carità, tutte quelle inutili commemorazioni. Necrologi manco a parlarne. Luciana si occuperà della gestione editoriale dei miei scritti. Per gli amici e compagni lascio una lettera, ma dovete leggerla quando sarà tutto finito. Sì, ora è finito. La notizia può essere resa pubblica. Lucio Magri, fondatore del Manifesto, protagonista della sinistra eretica, è morto in Svizzera all´età di 79 anni. Morto per sua volontà, perché vivere gli era diventato intollerabile.
A casa di Lucio Magri, in attesa della telefonata decisiva. È tutto in ordine, in piazza del Grillo, nel cuore della Roma papalina e misteriosa, a due passi dalla magione dove morì Guttuso, pittore amatissimo ma anche avversario sentimentale. Niente sembra fuori posto, il parquet chiaro, i divani bianchi, i libri sulla scrivania Impero, la collezione del Manifesto vicina a quella dei fascicoli di cucina, si sa che Lucio è un cuoco raffinato.
Intorno al tavolo di legno chiaro siede la sua famiglia allargata, Famiano Crucianelli e Filippo Maone, amici sin dai tempi del Manifesto, Luciana Castellina, compagna di sentimenti e di politica per un quarto di secolo. No, Valentino non c´è, Valentino Parlato lo stiamo cercando, ma presto ci raggiungerà. In cucina Lalla, la cameriera sudamericana, prepara il Martini con cura, il bicchiere giusto, quello a cono, con la scorza di limone. Cosa stiamo aspettando? Che qualcuno telefoni, e ci dica che Lucio non c´è più.
Da questa casa Magri s´è mosso venerdì sera diretto in Svizzera, dal suo amico medico. Non è la prima volta, l´aveva già fatto una volta, forse due. Però era sempre tornato, non convinto fino in fondo. Ora però è diverso. Domenica mattina rassicura gli amici: «Ma no, non preoccupatevi, torno domani». La sera il tono cambia, si fa più affannato, indecifrabile, chissà. Il lunedì mattina appare sereno, lucido, determinato. Ha scelto, e dunque il più è fatto. Bisogna solo decidere, e poi basta chiudere gli occhi. L´ultima telefonata nel pomeriggio, verso le sedici. Poi il silenzio.
Una depressione vera, incurabile. Un lento scivolare nel buio provocato da un intreccio di ragioni, pubbliche e private. Sul fallimento politico – conclamato, evidentissimo – s´era innestato il dolore privato per la perdita di una moglie molto amata, Mara, che era il suo filtro con il mondo. «Lucio non sapeva usare il bancomat né il cellulare», racconta una giovane amica.
Mara che oggi sorride dalle tante fotografie sugli scaffali, vestita color ciclamino nel giorno delle nozze. Un vuoto che Magri riempie in questi anni con le ricerche per il suo ultimo libro, una possibile storia del Pci che certo non a caso titola Il sarto di Ulm, il sarto di Brecht che si sfracella a terra perché non sa volare. Ucciso da un´ambizione troppo grande, così almeno appare ai suoi contemporanei.
Anche Magri voleva volare, voleva cambiare il mondo, e il mondo degli ultimi anni gli appariva un´insopportabile smentita della sua utopia, il segno intollerabile di un fallimento, la constatazione amarissima della separazione tra sé e la realtà. Così le ali ha deciso di tagliarsele da sé, ma evitando agli amici lo spettacolo del sangue sul selciato.
Aspettando l´ultima telefonata, a casa Magri. Lalla, la cameriera peruviana, va a fare la spesa per il pranzo, vi fermate vero a colazione?
E´ affettuosa, Lalla, ha ricevuto tutte le ultime disposizioni dal padrone di casa. No, non ha bisogno di soldi per il pranzo, ci sono ancora quelli vecchi che lui le ha lasciato. È stata lei ad assistere Mara nei tre anni di agonia per il brutto tumore, e poi ha visto spegnersi lui, sempre più malinconico, quasi blindato in casa.
Ogni tanto qualche amico, compagno della prima ora. Ma dai, reagisci, che fai, ti lasci andare proprio ora? Ora che esce l´edizione inglese del tuo libro? E poi quella argentina, e quella spagnola? Dai, ripensaci, c´è ancora da fare. Ma lui non era convinto. Non poteva fare più nulla. Lucido e razionale, fino alla fine. E poi s´era spenta la sua stella, così scrive anche nell´ultima lettera ai compagni.
Sembra tutto surreale, qui in piazza del Grillo, tra squilli di telefono e porte che si aprono. Arriva Valentino, invecchiato improvvisamente di dieci anni. Lo accolgono con calore. No, non sappiamo ancora niente. Aspettiamo. Ricordi privati e ricordi pubblici, lui grande giocatore di scacchi, lui grande sciatore, lui politico generoso che preparava i documenti e nascondeva la sua firma.
Ma attenzione a come ne scrivete, non era un vanesio, non era un mondano. Dalle fotografie sui ripiani occhieggia lui, bellissimo e ancora giovane, un´espressione tra il malinconico e il maledetto. Dietro la foto più seducente, una dedica asciutta. «A Emma, il suo nonno». Neppure Emma, la bambina di sua figlia Jessica, è riuscito a fermarlo.
Poi la telefonata, quella che nessuno avrebbe voluto mai ricevere. Ora davvero è finita. Le pompe funebri andranno a prelevarlo in Svizzera, tutto era stato deciso nel dettaglio. L´ultimo viaggio, questo sì davvero l´ultimo, è verso Recanati, dove sarà seppellito vicino alla sua Mara, nella tomba che lui con cura aveva predisposto dopo la morte della moglie. Luciana Cartellina s´appoggia allo stipite della porta, tramortita: «Non avrei mai immaginato che finisse così». Il tempo dell´attesa è concluso, comincia quello del dolore
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Il suicidio assistito di Magri Polemiche tra laici e cattolici (dal Corriere della Sera.it)
La Binetti: scelta negativa. Welby: serve rispetto
ROMA - Mercoledì scorso per l' ultima volta Lucio Magri s' era affacciato a Montecitorio e, incontrandoli in Transatlantico, aveva salutato così i vecchi amici della politica: «Ho deciso, vado in Svizzera, il mio tempo è passato, non ho più niente da rivendicare, grazie di tutto...». Inutili i tentativi di dissuaderlo. Sopraffatto dalla depressione e annichilito dalla morte della sua inseparabile compagna, Mara Caltagirone, stroncata da un tumore tre anni fa, Magri venerdì scorso ha fatto l'ultima scelta radicale della sua vita: il suicidio assistito. È partito da solo per Zurigo e due giorni fa, in una clinica specializzata, il fondatore del il manifesto , l' eretico del Pci e leader storico della sinistra italiana, a 79 anni ha chiuso gli occhi per sempre. La sua salma, per problemi burocratici, arriverà forse solo venerdì, o addirittura sabato, al cimitero di Recanati, dove sarà sepolta nella tomba che lui stesso aveva fatto costruire per la moglie. Di sicuro, Lucio Magri avrebbe voluto andarsene in silenzio. «Niente pubblicità, niente funerali, niente necrologi. Vorrei evitare cerimonie pubbliche, rimembranze, etc...», aveva lasciato scritto in una lettera all' amico Famiano Crucianelli. Ma la sua scelta inevitabilmente ora suscita qui da noi aspre polemiche, tra laici e cattolici, visto che in Italia l' eutanasia - la «dolce morte» - è vietata per legge.
«Agghiacciante e di cattivo esempio la pubblicità data al suicidio assistito di Magri, oltretutto la depressione oggi viene curata con successo in milioni di pazienti nel mondo...», accusa Melania Rizzoli, deputata del Pdl. «La morte di Magri è un atto amaro ma non va associata ad una scelta di libertà - commenta Eugenia Roccella, ex sottosegretario alla Salute del governo Berlusconi -. Si tratta comunque di un suicidio, anche se assistito. Un gesto senza speranza». Per Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo del Pdl al Senato, «non è possibile pretendere che scelte personali, che ritengo in contrasto con il diritto naturale, le compia lo Stato». Molto critica pure Paola Binetti, parlamentare dell' Udc: «Rispetto la persona e il mistero della libertà umana, ma mi auguro che questa scelta non diventi un modello». La radicale Antonietta Farina Coscioni, invece, attacca: «Magri riteneva intollerabile vivere. Per porre fine al suo dolore, però, è dovuto emigrare in Svizzera, con un biglietto di sola andata. Questo perché viviamo in un Paese dove vige una regola ipocrita: quella del si fa ma non si deve dire ...». Per Mina Welby, la moglie di Piergiorgio Welby, «la scelta dell' individuo è l' unica cosa che conta, quindi massimo rispetto». E Beppino Englaro, il papà di Eluana, è perentorio: «Nessuno può entrare nella coscienza di una qualsiasi persona». «Ma non dividiamoci ancora tra pro vita e pro morte - è l' appello finale di Ignazio Marino, senatore del Pd - il tifo da stadio non è giustificabile di fronte alla fragilità umana». Fabrizio Caccia
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La clinica che guarisce dalla vita con la morte
di Gabriele Villa - 30 novembre 2011, 08:00
«Vivere degnamente, morire degnamente». Parole sacrosante. Speranze lecite, dettate dal buon senso. Luci che dovrebbero illuminare il percorso di una vita intera fino alla più misteriosa e imperscrutabili delle conclusioni. Ma se quelle parole diventano qualcosa di più di una filosofia di vita e di morte, diventano uno slogan, una promessa agghiacciante quanto facilmente realizzabile? «Vivere degnamente, morire degnamente» è il motto attorno al quale si aggrovigliano i fili di mille vite piombate nel baratro nelle depressione, nella fine certa decretata da una malattia, nella voglia di farla finita senza un vero perch´. «Vivere degnamente, morire degnamente» è il biglietto da visita dell'associazione svizzera «Dignitas» fondata il 17 maggio del 1998 a Forch, non lontano da Zurigo che, in collaborazione con medici, psicologi, psichiatri, associazioni simili di altri Paesi, e cliniche specializzate, si propone di lavorare terapeuticamente per dissuadere chi manifesti volontà suicide ma anche di assecondare, con la pratica del suicidio assistito, chi, cittadino svizzero o no, sia fermamente determinato a togliersi la vita. Una singolare offerta quella proposta da «Dignitas» che ha fatto diventare la Svizzera il capolinea privilegiato da molti disperati. Ogni anno, infatti, circa 200 persone ricorrono alla morte assistita in Svizzera, dove il suicidio assistito è consentito dal 1941 a condizione che non sia legato ad alcun motivo egoistico ed è ammesso solo in modo passivo, cioè procurando ad una persona i mezzi per suicidarsi, ma non aiutandola a farlo. Un Paese, la Svizzera dove peraltro si registrano in media 1400 suicidi all'anno, pari al 2,2 per cento del totale dei decessi. Per la cronaca «Dignitas» ha assistito nel suicidio un totale di 1138 persone, (592 provenienti dalla Germania, 118 dalla Svizzera, 102 dalla Francia, 18 dagli Stati Uniti, 19 dall'Italia e 16 dalla Spagna.)
Secondo «Exit Italia» (l'associazione che dal 1996 lotta per vedere riconosciuto il diritto «a una morte dignitosa») sono almeno 30 gli italiani, malati di Sla, di cancro, di sclerosi multipla, ma anche di depressione, che nel 2011 si sono incamminati verso questa strada di non ritorno. Diciotto di questi sono stati dirottati alla clinica «Dignitas» di Zurigo. Ma, secondo quanto riferisce Emilio Coveri, presidente di Exit Italia: «Se Magri ha potuto accedere alla struttura è perchè la sua depressione era grave e conclamata. Non si va in Svizzera perché qualcuno ti suicidi se tu non ce la fai da solo, si va per un trattamento dignitoso e dietro copertura medica, solo e soltanto se puoi produrre una documentazione clinica che provi la gravità del tuo stato, sia esso fisico o psichiatrico». Secondo i dati in possesso di «Exit» a dimostrazione di ciò c'è il fatto che su mille richieste di suicidio 400 vengono rigettate dalla clinica perché mancano i requisiti. Una volta deciso che si può fare, i medici forniscono un composto chimico con un barbiturico e un potentissimo sonnifero, dopo aver somministrato due pastiglie di antiemetico. «In 5 minuti, senza dolore, arriva l'arresto cardiaco. Ma se il paziente non riesce a bere da solo il composto, se ha paura, se vuole essere aiutato, i medici - precisa Coveri - sono inflessibili: meglio tornare in Italia. Loro non uccidono per conto dell'aspirante suicida. Il tutto a un costo di non più di 3.000 euro».
In ogni caso associazioni come «Exit», in Svizzera non sono punibili a meno che non sia possibile contestare loro motivi egoistici. Sulla scia di questa «disponibilità» il 15 maggio scorso il diritto al suicidio assistito è stato confermato anche ai non residenti in Svizzera.


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Il diritto di vivere. E anche di morire? (Il Fatto Quotidiano)
Tre giorni fa la morte “pianificata” di Lucio Magri in una clinica svizzera. Oggi sul nostro giornale si confrontano due punti di vista opposti. Quello di Marco Travaglio: “Il medico salva, non uccide”. E quello di Paolo Flores d’Arcais: “Liberi di vivere e morire”. Decidere della propria vita significa anche poter delegare la propria fine ad altre persone? Ecco le opinioni dei due editorialisti.

Il medico salva, non uccide – di Marco Travaglio
Io non voglio parlare di Lucio Magri, che non ho conosciuto e non mi sognerei mai di giudicare: non so come mi comporterei se cadessi nella cupa depressione in cui l’avevano precipitato la vecchiaia, il fallimento politico e la morte della moglie. So soltanto che non organizzerei una festicciola fra i miei amici a casa mia, con tanto di domestica sudamericana che prepara il rinfresco per addolcire l’attesa della telefonata dalla clinica svizzera che annuncia la mia dipartita. Una scena che personalmente trovo più volgare e urtante di quella del pubblico che assiste alle esecuzioni nella camera della morte dei penitenziari. Ma qui mi fermo, perché vorrei spersonalizzare il gesto di Magri, quello che viene chiamato con orrenda ipocrisia “suicidio assistito” e invece va chiamato col suo vero nome: “Omicidio del consenziente”. Ne vorrei parlare perché è diventato un fatto pubblico e tutti ne discutono e ne scrivono. E molti tirano in ballo l’eutanasia, Monicelli o Eluana Englaro, che non c’entrano nulla perché Magri non era un malato terminale, né tantomeno in coma vegetativo irreversibile tenuto artificialmente in vita da una macchina: era fisicamente sano e integro, anche se depresso. Altri addirittura considerano il “suicidio assistito” un “diritto” da importare quanto prima in Italia per non costringere all’ “esilio” chi vuole farsi ammazzare da un medico perché non ha il coraggio di farlo da solo. Sulla vita e sulla morte, da credente, ho le mie convinzioni, ma me le tengo per me perché, da laico, non reputo giusto imporle per legge a chi ha una fede diversa o non ce l’ha. Dunque vorrei parlarne dai soli punti di vista che ci accomunano tutti: quello logico, quello giuridico, quello deontologico e quello pratico.
Dal punto di vista logico, non si scappa: chi sostiene il diritto al “suicidio assistito” afferma che ciascuno di noi è il solo padrone della sua vita. Ammettiamo pure che sia così: ma proprio per questo chi vuole sopprimere la “sua” vita deve farlo da solo; se ne incarica un altro, la vita non è più sua, ma di quell’altro. Dunque, se vuole farla finita, deve pensarci da sé.
Dal punto di vista giuridico c’è una barriera insormontabile: l’articolo 575 del Codice penale, che punisce con la reclusione da 21 anni all’ergastolo “chiunque cagiona la morte di un uomo”. Sono previste attenuanti, ma non eccezioni: nessuno può sopprimere la vita di un altro, punto. Se lo fa volontariamente, commette omicidio volontario. Anche se la vittima era consenziente, o l’ha pregato di farlo, o addirittura l’ha pagato per farlo. Non è che sia “trattato da criminale”: “È” un criminale. Ed è giusto che sia così. Se si comincia a prevedere qualche eccezione, si sa dove si inizia e non si sa dove si finisce. Se si autorizza un medico a sopprimere la vita di un innocente, come si fa a non autorizzare il boia a giustiziare un folle serial killer che magari è già riuscito ad ammazzare pure qualche compagno di cella?
Dal punto di vista deontologico, altro muro invalicabile: il “giuramento di Ippocrate” che ogni medico, odontoiatra e persino veterinario deve prestare prima di iniziare la professione: “Giuro di… perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale , ogni mio atto professionale; di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno…; di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione”. Non occorre aggiungere altro. Come si può chiedere a un medico di togliere la vita al suo paziente, cioè di ribaltare di 180 gradi il suo dovere professionale di salvarla sempre e comunque? Sarebbe molto meno grave se chi vuole suicidarsi, ma non se la sente di farlo da solo, assoldasse un killer professionista per farsi sparare a distanza quando meno se l’aspetta: almeno il killer, per mestiere, ammazza la gente; il medico, per mestiere, deve salvarla. Se ti aiuta ad ammazzarti è un boia, non un medico.
Dal punto di vista pratico, gli impedimenti alla legalizzazione del “suicidio assistito” sono infiniti. Che si fa? Si va dal medico e gli si chiede un’iniezione letale perché si è stanchi di vivere? O si prevede un elenco di patologie che lo consentono? E quali sarebbero queste patologie? Quasi nessuna patologia, grazie ai progressi della scienza medica, è di per sé irreversibile. Nemmeno la depressione. Ma proprio una patologia passeggera può obnubilare il libero arbitrio della persona che, una volta guarita, non chiederebbe mai di essere “suicidata”. Qui di irreversibile c’è solo il “suicidio assistito”: ti impedisce di curarti e guarire, dunque di decidere consapevolmente, cioè liberamente, della tua vita. E se poi un medico o un infermiere senza scrupoli provvedono all’iniezione letale senza un’esplicita richiesta scritta, ma dicendo che il paziente, prima di cadere in stato momentaneo di incoscienza e dunque impossibilitato a scrivere, aveva espresso la richiesta oralmente? E se un parente ansioso di ereditare comunica al medico che l’infermo, prima di cadere in stato temporaneo di incoscienza, aveva chiesto di farla finita?
Se incontriamo per strada un tizio che sta per buttarsi nel fiume, che facciamo: lo spingiamo o lo tratteniamo cercando di farlo ragionare? Voglio sperare che l’istinto naturale di tutti noi sia quello di salvarlo. Un attimo di debolezza o disperazione può capitare a tutti, ma se in quel frangente c’è qualcuno che ti aiuta a superarlo, magari ti salvi. Del resto, il numero dei suicidi è indice dell’infelicità, non della “libertà” di un Paese. E, quando i suicidi sono troppi, il compito della politica e della cultura è di interrogarsi sulle cause e di trovare i rimedi. Che senso ha allora esaltare il diritto al suicidio ed escogitare norme che lo facilitino? Il suicidio passato dal Servizio Sanitario Nazionale: ma siamo diventati tutti matti?

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Io “tifo” per la libertà – di Paolo Flores d’Arcais
Se la tua vita non appartiene a te, amico lettore, ne sarà padrone un altro essere umano, finito e fallibile non meno di te. Ti sembra accettabile? Su questa terra infatti si agitano e scontrano solo e sempre volontà umane, una volontà anonima e superiore che si imponga a tutti, oggettivamente o intersoggettivamente, è introvabile. Chi ciancia della volontà di Dio è blasfemo (come può pensare di conoscere ciò che è incommensurabile con la piccolezza umana?). In realtà attribuisce a Dio la propria volontà, lucrando sulla circostanza che nessun Dio potrà querelarlo per diffamazione. Il Dio cattolico di Küng considera lecita l’eutanasia, il Dio altrettanto cattolico di Ratzinger l’equipara all’omicidio. Perché in realtà si tratta dell’opinione di Küng e dell’opinione di Ratzinger, umanissime entrambe e non più autorevoli della tua. Perciò, rispetto alla tua vita, o il padrone sei tu o il padrone è un altro “homo sapiens”, eguale a te in dignità (così Kant, e ogni democrazia anche minima), vescovo, primario ospedaliero, pater familias o altra “autorità” che sia.
Ma poiché siamo tutti eguali, deve anche valere il reciproco: se il padrone della tua vita può essere qualcun altro, tu potrai a tua volta decidere della sua vita contro la sua volontà. Se c’è davvero qualcuno che accetterebbe si faccia avanti. Ma non ce n’è nessuno. Nella realtà esistono solo “homo sapiens” finiti, fallibili e peccatori come te e come me, amico lettore, che pretendono di imporre alle altrui vite la loro personale volontà, ma mai accetterebbero di essere soggetti ad analoga mostruosa prevaricazione.
Perciò, senza perifrasi: il suicidio assistito è un diritto? Sì. Fa tutt’uno col diritto alla vita e alla libertà, inscindibili. La “Vita” che qualcuno vuole “sacra” è infatti la vita umana, non il “bios” in generale (ogni volta che prendiamo un antibiotico, come dice la parola, facciamo strage di “vita”), e la vita umana è tale perché singolare e irripetibile, cioè assolutamente MIA. Se non più mia, ma a disposizione di volontà altrui, è già degradata a cosa: “Instrumentum vocale”, dicevano giustamente gli antichi.
Per Lucio Magri la vita era ormai solo tortura. Per Mario Monicelli la vita era ormai solo tortura. Per porvi fine, Lucio Magri ha dovuto andare in esilio e Mario Monicelli gettarsi dal quinto piano. La legge italiana vieta infatti una fine che non aggiunga dolore al dolore già insopportabile: su chi ti aiuta incombe una condanna fino a 12 anni di carcere. E per “assistenza” al suicidio si intende anche quella semplicemente morale! Due casi raccapriccianti di anni recenti: un coniuge accompagna l’altro nell’ultimo viaggio (solo questo: la vicinanza) e deve patteggiare una pena di oltre due anni, altrimenti la sentenza sarebbe stata assai più pesante. Una signora di 54 anni, affetta da paralisi progressiva, decide di andare da sola in Svizzera, proprio per non coinvolgere la figlia. Che tuttavia le prenota il taxi per disabili che la porterà oltre frontiera. È bastato per l’incriminazione: ha dovuto patteggiare un anno e mezzo di carcere.
Ma quando si vuole porre fine alla tortura che ormai ha saturato la propria esistenza, si ha sempre bisogno di assistenza: il pentobarbital sodium non si trova dal droghiere, solo un medico lo può procurare. L’alternativa è appunto l’esilio o lo strazio estremo dell’angoscia aggiuntiva: gettarsi sotto un treno o nel vuoto o nella morte per acqua. Le anime “virili” che si sono concessi perfino l’ironia (“se uno vuol farla finita ha mille modi, senza piagnistei di ‘aiuto’”: i blog ne sono pieni), hanno davvero oltrepassato la soglia del vomitevole.
Altre obiezioni grondano comunque ipocrisia o illogicità. “Se vedi uno che si sta impiccando che fai, rispetti la sua libertà o intanto lo salvi?”. Ovvio che lo salvo, poiché potrebbe essere un momento di sconforto. Ma i casi di cui parliamo sono sempre e solo riferiti a scelte lungamente maturate, ponderate, ribadite. Lucidamente e incrollabilmente definitive (a maggior ragione se chi vuole morire subito è un malato terminale comunque condannato a morte). Da rispettare, dunque, se a una persona si vuole bene davvero: anche se la fine della sua tortura ci procura il dolore della sua assenza per sempre.
Altrettanto pretestuosa l’accusa che il medico verrebbe costretto a praticare l’eutanasia a chiunque la chieda. Nessuno ha mai avanzato questa richiesta, ma solo il diritto – per il medico che questo aiuto vuole dare – di non rischiare il carcere come un criminale. Spiace perciò particolarmente che Ignazio Marino, clinico e cittadino dai molti meriti, abbia dichiarato: “Non dividiamoci tra ‘pro vita’ e ‘pro morte’, il tifo da stadio non è giustificabile di fronte alla fragilità umana”.
A parte la scurrilità del “tifo da stadio”: essere “pro choice” non è essere “pro morte” ma per la libertà di ciascuno di decidere liberamente, mentre troppi “pro vita” sono semplicemente “pro tortura”, poiché pretendono di imporla a chi invece la vive come peggiore della morte. Tu hai tutto il diritto di dire che mai e poi mai ricorrerai al suicidio assistito, che la sola idea ti fa orrore. Ma che diritto hai di imporre questo rifiuto a me, cui fa più orrore la tortura, visto che siamo cittadini eguali in dignità e libertà?
Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2011

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