venerdì 2 dicembre 2011

Cancer movie: "L'ultimo sogno"

Ho visto questa sera su Rai Movie il cancer movie  "L'ultimo sogno",  un film di Irwin Winkler del 2001 con Kristin Scott Thomas, Kevin Kline, Hayden Christensen, Jena Malone, Mary Steenburgen. Titolo originale "Life as a House". Invece di guardare Italialand di Maurizio Crozza sulla 7, ho visto con piacere questo film.  Non concordo con la recenzione che lo definisce: "scivola nel melodramma edificante e strappalacrime". Un anno fa non l'avrei guardato, è segno di senectus?
 Trovo su MyMovies.it  questa recenzione negativa che è stata approvata dal 15% e respinta dall'85% del pubblico:
Eccentrico architetto, californiano e cinquantenne, in cattivi rapporti con sé stesso e col prossimo, apprende di avere un tumore incurabile e pochi mesi di vita. Decide di passarli costruendo una casa di sua ideazione a picco sul Pacifico e costringendo il figlio punk e ribelle ad aiutarlo. Prima di morire, riconquista affetto e stima di tutti, ex moglie compresa. Scritto con melensaggine consolatoria da Markus Andrus, è un cancer movie che, dopo una 1ª parte non priva di artificiosa vivacità, scivola nel melodramma edificante e strappalacrime al servizio di Kline, fin troppo impegnato nel dimostrare la sua bravura sul registro patetico. L'unico personaggio interessante è la moglie.

Ecco il commento contrario alla recenzione, di martedì 16 giugno 2009, di Maria Chiara, una ragazza di 23 anni.  
Trovo che la recensione che và ad apertura di questo film sia un insulto a quel che è in realtà il film, sono una ragazza di venti tre anni, e probabilmente io non ne capisco niente di critiche eccelse e di persone che vengono pagate per esprimere giudizi che poi possono corrispondere alla visione nazional popolare o meno di questo film, noto con piacere che il voto a cui io stessa ho partecipato "sei d'accordo con questa recensione?"  Ad oggi segna un bellissimo 88% di no. Questo riempie il mio cuore di gioia e spero possa diventare un ancora più bello "100%". Io trovo che questo film non vada solo visto con gli occhi e registrato con il cervello, io credo che questo film vada percepito con l'anima. Ci sono parti così profonde in cui ognuno di noi si è immedesimato, chi più chi meno volte e trovo che parlare di vita come hanno parlato Loro sia un insulto alle persone che come me si sono emozionate e riviste nei vari personaggi. l'unica decente è l'ex moglie? (...)
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Nel sito "Cinema e Psicoanalisi", Ignazio Senatore riporta  alcune frasi  del suo interessante libro "Cinema Mente e Corpo" dal titolo: Dolore, lacrime e sospensione del tempo; il cinema e le malattie oncologiche

1. Introduzione
(...) Quando c'imbattiamo nelle pellicole la cui narrazione si snoda intorno al tema della malattia terminale, questo seriale e perfetto statuto narrativo è in qualche modo scardinato e stravolto perché terminano con l'inevitabile e drammatica morte del protagonista della vicenda. Scopo di questa relazione sarà quello di mostrare come la "fabbrica dei sogni" ha mostrato sullo schermo le varie fasi della malattia oncologica; dalla scoperta della malattia, alla rivelazione al paziente, all'exitus finale.

2. La comunicazione della malattia
Come avviene nella vita reale, al cinema la scoperta del "male incurabile" avviene quasi sempre per caso e la "rivelazione" della malattia piomba sul protagonista della vicenda, come un fulmine a ciel sereno. Il cinema predilige di mostrare questo momento altamente emotivo, con sfumature diverse. Nella quasi totalità dei casi tocca al medico assumersi la responsabilità di una così delicata comunicazione. In "Nemiche amiche" la dottoressa si rivolgerà alla paziente e le dirà (...) Nello stesso film, la dottoressa si adopererà ad informare, in maniera dettagliata, la paziente sugli effetti collaterali associati alla cura farmacologica: (...) In "Voglia di tenerezza" il dottore cercherà, inizialmente, di rassicurare la paziente:
Dottore: Lei ha nodulo sotto l'ascella, anzi ne ha due…Bisognerebbe toglierli ed esaminarli…
Emma:   Ma io sono spaventata…
Dottore: Se lei si spaventa, vorrà dire che sarà molto più felice quando saprà che non avrà più niente…
Da questi brevi frammenti riportati, appare evidente come a differenza di altri operatori impegnati nella salute mentale (basti pensare alla svalutante immagine degli psicoterapeuti proposta del mondo della celluloide) la figura dell'oncologo venga rappresentata in positivo.
(*) I medici appaiono tutti "comprensivi", dotati di alta umanità, capaci di contenere la sofferenza del paziente ed in grado di infondergli speranza e sicurezza. In tutte queste pellicole l'oncologo viene mostrato come un eroe tragico, "costretto", suo malgrado, a dover comunicare, in maniera secca e decisa, alle sue pazienti la gravità della diagnosi.
(**) Nel film "Voglia di tenerezza", il dottore si limiterà a dire alla paziente:
Dottore: Emma si è rilevato maligno
Emma:   Me lo ripete?
Dottore.  Maligno
Altre pellicole, la cui trama narrativa si snoda sempre a partire da una malattia "incurabile", mostrano anche altre figure professionali protettive ed accoglienti. Ne "La voce dell'amore", una sensibile infermiera non mancherà di offrire dei suggerimenti alla paziente: (...) In altri film, la figura del medico è sullo sfondo o non compare affatto; in questi casi sarà lo stesso ammalato che avrà il "coraggio" di confessare alla persona cara il proprio male. In "Anonimo veneziano" l'uomo comunicherà così alla sua ex amata il suo ineludibile destino (...)

3. Le reazioni del paziente
Per non appesantire troppo il clima "mortifero" della stessa pellicola, i registi tendono a glissare e a scotomizzare le reazioni emotive dei pazienti. In "Love story", la protagonista femminile si rivolge al marito e gli dirà: (...)

4. L'exitus
Nonostante il regista provi, come ad allentare la tensione procurata dall'imminente morte della protagonista, nella maggioranza dei film, lo spettatore assiste impotente alla lenta agonia della protagonista E quando si tratta di filmare gli ultimi momenti della vita del personaggio della vicenda, il regista opera generalmente una sorta di scotomizzazione della morte stessa, limitandosi a "narrare" (spesso con l'ausilio di una voce fuori campo o mediante il commento di uno dei protagonisti della vicenda) ed a "filtrare" l'avvenuto exitus della paziente. Di fronte ad un destino così crudele, i registi sembrano quindi di suggerirci che non c'è spazio né per le immagini, né per le parole. Altre volte (come accade in "Nick's movie - Lampi sull'acqua", "My life", "La voce dell'amore", "La stanza di Marvin", "Sussurri e grida", "Man on the moon", "Magnolia"…) la macchina da presa, "senza alcuna pietà", "indugia", " scava", "spoglia" le carni del protagonista della vicenda, fino a mostrarne la disgregrazione del corpo, la sua inesorabile e "mostruosa trasformazione".
(***) Nel film "Scelta d'amore" (il cui titolo originale non a caso è "Dyning young"- "Il giovane morente") il regista mostra "addirittura" e "senza pietà" gli effetti collaterali dei farmaci chemioterapici, riprendendo il protagonista mentre vomita, trema, suda e si contorce dal dolore. In "Anonimo veneziano" il regista mostra l'inesorabile "declino" del protagonista, filmandolo quando assume la terapia orale ed intramuscolare e quando si poggia la mano sulla nuca, quasi per oggettivare il male incurabile che lo affligge.

5. Un segnale di speranza…
Non sempre il cinema rappresenta il cancro come una malattia “incurabile”. Nell'indimenticabile film di Agnes Varda, "Cleo dalla 5 alle 7", la protagonista (Cleò) si aggira per Parigi mentre attende l'esito di un esame radiologico. Nel suo girovagare per Parigi, in attesa dell'esito delle analisi, incontra in un parco un soldato che tenta di abbordarla… (...)
Medico: Il trattamento la stancherà un po', ma poi con un paio di mesi di raggi, guarirà.
Cleò:     Mi sembra di non aver più paura, mi sembra di essere felice

6. Le cifre stilistiche
Tra i vari generi cinematografici il melò è certamente uno dei codici iconografici e narrativi di sicuro successo. Volendo schematizzare potremo affermare che tale "genere" fa appello a dei sentimenti "popolari" e gioca sul contrasto spesso irriducibile tra la vita e la morte. Da tale premessa ne discende che in questi film i registi, attratti dall'incasso del botteghino, hanno spesso inondato le trame con artifici stilistici di sicuro effetto.  
Come ricordano Orio Caldiron e Stefano della Casa (3):  
"Ne "L'ultima neve di primavera" il bambino prima di morire vuole fare un ultimo giro sulla giostra.  In questa scena l'utilizzo della musica ad effetto è il più evidente dei dispositivi emozionali attivati, ma "funziona" soprattutto in relazione al senso di vuoto e di morte che promana dal Luna Park deserto e dall'imprevista accensione di luci che si fa espressione cosmica della tragedia di una giovane vita che si spegne."
In "Anonimo veneziano", ad esempio, per amplificare ulteriormente la tensione drammatica, il regista utilizza un'alternanza di scene dal contenuto drammatico e di flash-back gioiosi che rimandano all'amore tra i due protagonisti. Al di là di alcune cifre stilistiche care al cinema "strappalacrime" e di maniera (l'uso massiccio dei primi piani del protagonista, il rallenty e i flash back…) i registi fanno appello ad un uso massiccio della colonna sonora che amplifica i momenti più drammatici della vicenda. Non è forse un caso che pellicole come "Anonimo veneziano" o "Love story" siano ricordate più per il commento musicale che per la loro esile trama narrativa. Quello che colpisce, inoltre, in questi film è l'ambientazione tipicamente "borghese" di queste pellicole; le trame, infatti, si svolgono, infatti, per lo più, all'interno di ambienti lussuosi, luminosi e ben arredati e gli attori impegnati in queste pellicole (Meryl Streep, Debra Winger, Susan Sarandon, Ali Mac Graw, Tony Musante...) sono dotati tutti di un certo fascino e di un'indubbia bellezza.
Le uniche pellicole che si discostano da questa rappresentazione melodrammatica della malattia neoplastica sono “L’amico americano” ed il successivo remake “Il gioco di Ripley”. In questi due splendidi film, il protagonista maschile è un corniciaio, afflitto da un male incurabile. Consapevole del suo triste destino, per garantire un futuro economico alla propria famiglia, prima di morire, accetterà di compiere un doppio delitto.
7. Conclusioni
Come terminare questo mio viaggio sul tema, se non con un'ultima citazione  “cinematografica” di Gianni Canova (4)?
"L'idea di partenza è doveroso riconoscerlo, viene dalla rilettura di un vecchio intervento di Italo Calvino. Sollecitato a riflettere sul patetico, Calvino ricordava quella pagina di Michele Strogoff in cui l'eroe di Jules Verne, catturato dai Tartari, viene condannato all'accecamento. Durante la tortura, prima che il fuoco gli bruci le pupille, Strogoff chiude gli occhi e piange. E proprio le lacrime formano sotto le palpebre una pellicola protettiva che salva l'eroe dalla cecità. La metafora, per chi la vuole intendere, è cristallina, e sembra fatta apposta per il popolo del cinema; le lacrime non ottundono lo sguardo, lo preservano. Non offuscano la vista, la salvano. Consentono, cioè di continuare a vedere ancora. (…) Ciò significa che la lacrima, in quanto effetto fruitivo, abbisogna contemporaneamente di un certo dispositivo testuale, sia di una certa soggettività che in quel dispositivo si esalta, dopo essersi persa e ritrovata in essa. (…) Di cosa piangiamo, se piangiamo, di fronte alle peripezie amorose e alle catastrofi cancerose di Ali Mac Graw e Ryan O'Neal? Piangiamo perché anche noi abbiamo vissuto (lo stiamo vivendo) la stessa esperienza dei protagonisti? O perché temiamo che quella stessa esperienza possa capitare anche a noi? O perché ci è già capitato e ne siamo usciti positivamente? O ancora, perché ci sentiamo colpevolmente privilegiati per non aver subito la stessa ingiustizia? O perché ci sentiamo indignati di fronte alla crudeltà della vita e alla malvagità della natura? Il nostro pianto, può essere, di volta in volta, protettivo, cautelativo, autopunitivo, consolatorio, catartico. Forse è tutte queste cose insieme, in un groviglio inestricabile di motivazioni che garantiscono per altro, tutte, un'ineguagliabile intensificazione delle nostre abituali esperienze emotive." (…) Per un paradosso il pianto è il sintomo di un soggetto che ritorna in sé dopo essersi spinto, fuori dal suo hic et nunc, verso l'altro da sé. In quanto espressione e veicolo della "tenerezza verso se stessi", il pianto ripara, per quel che è possibile, alla radicale mancanza di tenerezza mostrata dal mondo." (...)

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