domenica 27 gennaio 2013

La chemio può peggiorare il cancro della prostata?



Dr. Peter Nelson della
 Human Biology Division
Trovo sul  Corriere Nazionale Salute  di  Mercoledì 8 Agosto 2012, a cura di Marina Bisogno, questo interessante articolo che fa riferimento ad un articolo apparso sulla prestigiosa rivista britannica "Nature".  Il titolo dell'articolo di Nature, pubblicato l'8 agosto 2012, è il seguente: "Neighbours join the resistance". L'abstract afferma: Le cellule normali vicino a quelle cancerose sono in grado di supportare i loro vicini maligni secernendo delle proteine ​​ in risposta ai farmaci antitumorali.
Peter Nelson e il suo team, al Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle, Washington, ha scoperto che la chemioterapia induce le cellule benigne vicino ai tumori della prostata a secernere una proteina di segnalazione chiamata WNT16B. Questa promuove ... (per leggere l'intero articolo si devono pagare 30€)
Ecco l'articolo del Corriere Nazionale
Dagli Usa: la chemio peggiora il cancro
Roma - “Nature”, storica rivista scientifica londinese, ha diffuso la notizia che la chemioterapia anziché sconfiggere il cancro ne favorirebbe addirittura la crescita. Anche il Daily Mail, celebre tabloid britannico, il 6 agosto titolava “Chemotherapy can backfire by encouraging cancer growth”: “La chemioterapia può avere l’effetto opposto favorendo la crescita del cancro”. La scoperta è del team di ricerca del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle, guidato da Peter Nelson, e sta facendo letteralmente trasalire chiunque, almeno una volta, abbia avuto a che fare con l’invasivo trattamento. Ma di cosa si tratta esattamente? Stando a quanto si apprende dalle fonti estere, gli scienziati hanno riscontrato che la chemio stimolerebbe nelle cellule sane la secrezione di una proteina, la WNT16B. Il secreto, poi, non solo comporterebbe un aumento delle cellule malate, ma contribuirebbe anche ad ostacolare gli esiti positivi della terapia, fino a vanificarla del tutto. Si creerebbe, in sostanza, una vera e propria barriera intorno all’area colpita dal tumore, in particolare da quello al seno, alla prostata, al polmone e all’intestino («almost all solid tumour cancers, such as those affecting the breast, prostate, lung and bowel, ultimately stop responding to chemotherapy», dice il Daily Mail). Tempo fa gli scienziati avevano, infatti, notato che i nuclei malati della prostata, del seno o delle ovaie, trattati con la chemio, facevano molta più resistenza nel corpo umano invece che in laboratorio. Così, hanno voluto vederci chiaro. Hanno subito mappato gli effetti della chemio direttamente sui tessuti dei pazienti e hanno riscontrato che può lesionare il DNA delle cellule sane circostanti. Eppure, contro ogni logica deduzione, “i padri” della ricerca non se la sentono di decretare il fallimento della medicina ufficiale. Da Seattle chiariscono solo che l’antidoto a questa reazione potrebbe essere l’assunzione di un anticorpo alla proteina letale, in modo da perfezionare il trattamento, o, in alternativa, la riduzione delle dosi del medicinale. Non conforta nemmeno la posizione di Fran Balkwill, esperto del Cancer Research Uk: «La rivelazione è compatibile con le altre ricerche che attestano come il trattamento non solo attacca le cellule malate, ma bombarda anche quelle intorno. Questo lavoro conferma che le cellule sane che circondano il tumore possono anche aiutarlo a resistere al trattamento». Il prossimo step è arginare questo meccanismo di resistenza e rinforzare gli effetti della cura. E in Italia, come hanno reagito alcuni dei più alti profili del settore?
De Lorenzo mette in guardia: «Niente allarmismi, è un salvavita»
Francesco De Lorenzo, per anni titolare della cattedra di chimica biologica all’Università di Napoli, ex ministro della Sanità, fondatore di “Aimac” (Associazione italiana malati cancro) e presidente della “Favo” (Federazione associazioni volontari oncologici): «Credo si tratti di un risultato importante che spiega un fenomeno che gli oncologici più accorti avevano riscontrato da tempo, ma che nulla toglie all’azione chemioterapica. In qualità di fondatore dell’Aimac desidererei che passassero informazioni corrette. Io stesso sono stato colpito da un cancro al colon e sono guarito con la chemioterapia. Perciò non vorrei si creassero allarmismi, capaci di confondere i pazienti, sfiduciandoli. Era già noto che i chemioterapici antitumorali, in alcuni casi, facessero registrare dapprima dei buoni risultati e poi uno stallo nella riduzione della massa maligna. Ne deduciamo, pertanto, quello che sostengono i colleghi americani: che esiste una reazione da parte delle cellule sane che ostacolano il trattamento. Nella pratica siamo già avvezzi a questo tipo di fenomeno, tanto che, nel tempo, adoperiamo farmaci differenti, o associamo la chemio a farmaci biologici. In poche parole, siamo davanti ad uno dei tanti meccanismi noti che non sviliscono la chemioterapia. Si sa già che per contrastare il cancro alla prostata, la cura vincente è a base di ormoni e non di chemio. Come sappiamo pure che la chemioterapia è invasiva, può alterare il DNA e che dobbiamo metterne in conto gli effetti collaterali. Tuttavia, dai chemioterapici non si scappa. Si pensi ai linfomi, al cancro al retto o al polmone: in queste ipotesi i farmaci sono un supplemento, un’integrazione, proprio alla luce di quella reazione delle cellule sane che a lungo andare vanifica l’effetto dei chemioterapici. Ma ripeto, questo lo sapevamo già. La riflessione da fare, invece, è a margine, quasi consequenziale, e riguarda tutti quei casi in cui è meglio non insistere con la chemio, evitando, così, il rischio che si riveli inutile. Perciò, per il bene dei pazienti, bisogna sempre dosare i tempi, osservare con attenzione le reazioni, lasciando spazio ad altri trattamenti tutte le volte in cui la massa cancerosa non risponde più al bombardamento. E non è tutto. Dobbiamo anche capire meglio se la difesa delle cellule sane deriva solo dalla chemio o è un effetto generalizzato, questione affrontata da tempo e studiata da più parti. La chemioterapia è un salvavita e l’articolo non lo nega affatto. Spiega piuttosto perché, in alcuni tipi di neoplasie, la chemio prima funziona e dopo no».
Per Paolo Marchetti nessuna novità: «Cellule sane bersagliate? Si sapeva»
Paolo Marchetti, titolare della cattedra di Oncologia medica all’Università di Roma: «Le deduzioni dei colleghi sono già oggetto di discussione durante i congressi. Credo che la stampa abbia eccessivamente semplificato il senso dello studio per alimentare un po' di clamore. Questa lettura “en passant”, però, non può e non deve subissare le numerose vittorie, i milioni di vite salvate. Il rischio, che non possiamo correre, è un arretramento sostanziale della fiducia dei pazienti nella chemioterapia. Ci sono voluti anni per vincere le ritrosie e le diatribe sulla validità della chemio. Premesso che anche noi oncologi riconosciamo l’invasività della chemio, non possiamo proprio suggellarne il superamento. D’altronde, gli studiosi di Seattle non dicono il contrario. Anzi. La verità è che l’interazione tra cellule cancerose e cellule sane è un chiodo fisso per tutti gli addetti ai lavori. Le dico, a questo proposito, che uno studio avviato con l’Istituto Superiore della Sanità ha evidenziato, ad esempio, che l’iniezione di farmaci antitumorali innesca una collisione tra cellule sane e cellule cancerose. Iniettando, quindi, delle cellule immunologiche, abbiamo riscontrato una reazione locale delle altre cellule che riconoscono quelle iniettate, e potenziano la risposta immunitaria. Il team d’Oltreoceano ha giustamente posto l’accento sulle reazione delle cellule sane, che bersagliate, producono una proteina dannosa per il successo della terapia. Un passaggio centrale, che, comunque, non è una scoperta. Di fronte a questa situazione due sono le soluzioni: trovare l’anticorpo all’azione della proteina “imputata” o ridurre le dosi della chemio tutte quelle volte che viene riscontrata un’interruzione nell'arretramento del cancro».
La diffidenza di Umberto Tirelli: «Letta così crea solo scompiglio»
Umberto Tirelli, primario dell’Ospedale Oncologico di eccellenza di Aviano: «La notizia non mi ha entusiasmato, anzi mi trova molto diffidente. Dico di più, non mi aspettavo una pubblicazione sul “Nature”. Letta così, con quei titoloni, crea solo scompiglio. Prima di tutto l’assunzione dell’anticorpo contro la proteina la trovo una soluzione ancora da verificare. Inoltre, credo sia sbagliato puntare genericamente il dito. Quando diciamo tumore, ci riferiamo ad un centinaio di malattie diverse. Solo nell’ambito del linfoma possiamo individuarne decine. Se analizziamo il caso della prostata, è un tipo di male per cui la chemioterapia non è mai stata la cura più adatta, o quanto meno, centrale. Anzi, in questo caso sostengo sempre l’ormonoterapia, incentrata sull’abbassamento del livello di testosterone in circolo, fino al rallentamento o al blocco della crescita delle cellule tumorali. Non è quindi una novità che per la prostata bisogna testare altre soluzioni. Per tutti gli altri tumori solidi, con una massa di cellule neoplastiche imprecisa e poco definita, (es: mammella, colon-retto), come si fa a dire che la chemio non è efficace? Abbiamo risultati che provano il contrario. Ovviamente, dipende sempre in che stadio della malattia ci si trova, e in ogni caso, la chiave non sta nei farmaci biologici. Certo, ci sono dei casi, come per la leucemia mieloide cronica, dove i farmaci si sono dimostrati efficaci, tanto che negli ultimi 5 anni abbiamo assistito ad un cambiamento radicale nella terapia e nella stessa prognosi. Tuttavia, insisto, si tratta di casi precisi, non sussumibili a cure generali. La chemio è insostituibile, e vanno sempre affiancati prevenzione e diagnosi precoce. Dire che la chemio accresce il tumore pare un’affermazione che lascia il tempo che trova. Non c’è nessuna scoperta sensazionale, nessuno scoop sulla pelle di quanti il problema lo conoscono da vicino».

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