lunedì 12 novembre 2012

La morte: "Che cosa importa? Tutto è grazia"



Locandina del film di Bresson
Dopo aver postato "La vita è bella, anche se ho il cancro?!", un tema difficile e controverso, tratto in questo post un altro argomento alquanto complicato ma reale. Parto dal cancro nel cinema e mi soffermerò su un vecchio film e sull'omonimo famoso romanzo da cui è stato tratto: Il diario di un curato di campagna di Georges Bernanos. 
Perché analizzare questo film del 1951? Mi ha intrigato la frase di chiusura del romanzo e del film, pronunciata il 30/9/1897 anche da Teresa di Lisieux mentre stava morendo: "Che cosa importa? Tutto è grazia". 

Ma cosa significa questa affermazione, mi chiedo? L’autore del romanzo ha voluto evidenziare la scoperta che alcuni fanno alla fine della vita non importa se muoio perchè tutto è grazia ovvero dono?  Sta ad indicare che la morte e la sofferenza provengono dalla Grazia, dono di Dio? La vita è un dono, non siamo al mondo per nostra volontà e neppure moriamo, tranne nel suicidio, per nostra decisione. 
Ma procediamo con ordine nell'intricato labirinto delle storie, alquanto drammatiche, delle persone protagoniste del romanzo e rappresentate nel film!
Punto di partenza per questa riflessione è stato l' articolo di Adriana Bazzi del 20 settembre 2012, scritto per il Corriere della Sera Salute (Sportello Cancro),  dal titolo: Volete saperne di più sul cancro? Non andate al cinema.
Sopra titolo: In molte pellicole è presente la malattia, ma senza approfondimento.
Sotto titolo: I film non dicono la verità sulle possibilità di diagnosi e di cura che oggi la medicina mette a disposizione dei pazienti.

L'articolista si riferisce a "Oncomovies: cancer in cinema", una ricerca condotta da un team italiano coordinato dal prof. Luciano De Fiore docente aggregato di filosofia presso l'Università la Sapienza di Roma e da  Giovanni Rosti Direttore dell’Oncologia dell'Ospedale S. Maria di Ca' Foncello di Treviso e membro del Direttivo del Collegio Italiano Primari Oncologi Medici Ospedalieri (Cipomo). La studio è stato presentato al Congresso della European Society of Medical Oncology (Esmo) che si è tenuto a Vienna dal 28 settembre al 2 ottobre 2012. Il presidente del Collegio del Cipomo, Roberto Labianca, commentando la ricerca ha affermato: Nei film i personaggi affetti da tumore spesso non sopravvivono alle cure, “ma fortunatamente la realtà è molto diversa e per questo invitiamo la grande scuola cinematografica italiana affinché in futuro contribuisca a fornire una visione più veritiera dello stato attuale delle cose e a consolidare un sentimento di fiducia nell’animo dei pazienti che si trovano ad affrontare questo difficile percorso”.
Nello studio sono stati presi in esame 82 pellicole, dal 1939 ad oggi, dove si parla in qualche modo di tumore.
Eccone alcune:
  • La gatta sul tetto che scotta (Cat on a Hot Tin Roof), film del 1958 diretto da Richard Brooks, tratto dall'omonimo dramma teatrale di Tennessee Williams, con Elizabeth Taylor e Paul Newman.Tratto dal dramma di Tennessee Williams, il film ne contiene, pur edulcorandolo nel passaggio allo schermo, tutto il repertorio: dialoghi morbosi, sessuofobie, frustrazioni, recitazioni a effetto. Un drammone di sentimenti accesi, di amori e odii con una regia eccellente. Straordinari Newman e la Taylor (il padre di Brick è il malato di cancro).
  • Erin Brockovich - Forte come la verità, film del 2000 diretto da Steven Soderbergh, con Julia Roberts. Erin Brockovich (storia vera), segretaria precaria di uno studio legale e madre trentenne di tre figli, nubile dopo due divorzi, spinta da curiosità, intraprendenza e senso della giustizia, indaga sulla Pacific Gas and Electric Company che ha contaminato le falde acquifere di una cittadina californiana, provocando tumori ai residenti. Sostenuta dal suo principale, vince la battaglia legale, ottenendo per i 634 querelanti indennizzi per 333 milioni di dollari (più un assegno di 2 milioni per sé).
  • Scelta d'amore - La storia di Hilary e Victor (Dying Young), film del 1991 diretto da Joel Schumacher. Il film è tratto da un romanzo di Martin Leinbach. La storia ruota attorno a un padre morente ed al proprio figlio, che tenta di sapere di più riguardo la vita del genitore ricostruendo le avventure che questi ha accumulato nel corso degli anni. Il figlio finisce per riassemblare l'indefinita vita del padre attraverso una serie di storie fantastiche ispirate ai pochi fatti di cui è a conoscenza. Grazie a questi racconti, il figlio inizia a comprendere le eccezionali imprese di suo padre, ed i suoi più grandi fallimenti.
  • Le ultime 56 ore, film del 2010 diretto da Claudio Fragasso. La pellicola – sceneggiata da Rossella Drudi, moglie di Fragasso – tratta l'argomento della cosiddetta "sindrome dei Balcani", ovvero quella lunga serie di malattie (per lo più linfomi di Hodgkin e altre forme di cancro, imputabili all'uso dell'uranio impoverito) che hanno colpito i soldati dell'Esercito Italiano al ritorno dalle missioni di pace internazionali (in questo caso, dalla guerra del Kosovo).
  • L'eternità e un giorno (nell'originale in lingua greca: Mia Eoniotita Kai Mia Mera), film diretto da Theo Angelopoulos di produzione franco-greco-italiana per l'Istituto Luce, vincitore della Palma d'oro per il miglior film al 51º Festival di Cannes. Un famoso scrittore lascia la sua casa di Salonicco per recarsi in auto all'ospedale da dove forse non uscirà più (cancro). L'incontro con un ragazzino albanese, lavavetri clandestino, lo toglie per qualche giorno dalla solitudine; il ricordo della moglie morta lo riporta a un passato troppo dedicato a sé stesso e al lavoro. 
  • La prima cosa bella, film del 2010 diretto da Paolo Virzì. Un viaggio nel passato per un uomo che fin da bambino ha visto nella bellissima madre quello che gli altri volevano fargli vedere ma che probabilmente era solo frutto di invidie e pettegolezzi di provincia. Bruno è il primogenito di questa donna che per lui è stata il cruccio di un'intera esistenza. Quando un male incurabile la sta per portare via, la sorella Valeria lo convince a ritornare al paese natale in un viaggio che si trasforma in una rievocazione della vita e delle imprese della loro madre.
  • Le invasioni barbariche, film canadese del 2003, scritto e diretto da Denys Arcand, vincitore di numerosi premi tra cui l'Oscar al miglior film straniero, dedicato al delicato tema dell'eutanasia. Il cinquantenne Remy viene ricoverato in un ospedale di Montreal. La sua ex moglie Louise chiede al figlio Sébastien (da tempo trasferitosi a Londra) di rientrare a casa. Il giovane esita dal momento che è ormai troppo tempo che con suo padre non ha più nulla da dirsi. Cedendo, alla fine, ai sentimenti, Sébastien torna a casa e, non appena arrivato, si adopera in tutte le maniere per sostenere il padre nella sua difficile prova. Fra l'altro, riesce anche a riunire il vecchio gruppo di parenti ed amici che un tempo frequentava Remy. In loro sarà rimasto qualcosa dello spirito dei giorni passati?
  • Gran Torino, film del 2008 diretto e interpretato da Clint Eastwood. Walt Kowalski, malato di cancro, è un reduce della guerra di Corea, di carattere burbero e spavaldo, prova una grande passione per la propria Ford Gran Torino, modello classico del 1972, custodita in garage. Walt non mostra pudore nel manifestare il proprio sentimento anticoreano, nato durante la sua campagna in Corea, quando vide morire suoi amici per mano dei nemici. A peggiorare la situazione, il quartiere da lui abitato negli ultimi anni è diventato il principale centro suburbano della comunità coreana, e le bande giovanili danno molto fastidio a Walt. Anche se frustrati e maltrattati da Kowalski, i coreani aiuteranno l'uomo a risolvere i problemi personali che tiene con la famiglia, per diventare amici e aiutarlo a ripudiare il razzismo.
Dall'indagine sono scaturite interessanti conclusioni. In primo luogo, la differenza di età tra i malati nei film e nella vita reale. Sul grande schermo chi ha il cancro è mediamente una persona giovane, sui 40 anni, di elevata classe sociale, con un tumore molto raro e che nella maggior parte dei casi muore. Nella realtà la morte per cancro è più frequente tra le persone anziane. Ma morire di cancro quando si è vecchi è un fatto di ordinaria amministrazione e non suscita particolari sentimenti, è la vita! Chissà perché i film poi non prendono mai in considerazione il tumore alla mammella, si sono chiesti i ricercatori, che negli anni è diventata la patologia più diffusa tra il gentil sesso e da cui sempre più donne guariscono. Fra i personaggi colpiti da cancro, 40 sono donne e 35 sono uomini. In 46 film il protagonista malato moriva (63% sul totale dei film analizzati); la morte rende il film più drammatico e più strappa lacrime. In 21 film il tipo di tumore non era citato. I sintomi erano raccontati nel 72% delle pellicole, mentre il riferimento a test diagnostici compariva nel 65% dei casi. La terapia più citata risultava essere la chemioterapia, seguita dai trattamenti antidolorifici. La radioterapia forse viene considerata meno dolorosa e quindi meno teatrale e angosciante. Medici e infermieri comparivano in 58 pellicole (77%).
Georges Bernanos
Come ho detto mi soffermo su un vecchio film in cui il protagonista, un curato di campagna, muore giovanissimo di cancro allo stomaco. Si tratta del "Diario di un curato di campagna" (Le journal d'un curé de campagne), film drammatico del 1951 scritto e diretto da Robert Bresson, tratto dal'omonimo romanzo dello scrittore francese Georges Bernanos.
Giovanna, mia moglie, accanita lettrice, ha trovato il romanzo in questione tra i suoi molti libri, con la traduzione di Adriano Grande. Era allegato al settimanale Famiglia Cristiana del 17 dicembre 1997, stampato su licenza della Arnoldo Mondadori Editore. La trama del film e del romanzo è la seguente (tratta da Famiglia Cristiana): Il "Diario di un curato di campagna", uscito nel 1936, certamente il romanzo più significativo di Bernanos, ottiene il più alto riconoscimento con il Grand-prix dell’Accademia francese. Ne è protagonista il giovane curato di Ambricourt, sacerdote ricco di zelo e di amore per le anime, la cui sensibilità urta di continuo contro l’indifferenza e la volgarità dei parrocchiani dai quali si sente isolato. Non gli resta che affidare pensieri e tormenti a un diario segreto, strumento di presa di coscienza della propria interiorità e di conseguente auto-liberazione. Così, mentre sfilano nelle sue pagine i personaggi della parrocchia con tutte le loro vicende, egli ha modo di mettere a nudo le pieghe più riposte della propria anima, registrandone inadempienze, sgomenti e paure che sono poi il contrappunto dell’atmosfera spirituale che si è andato creando. Alcolista per tara familiare, affetto da cancro allo stomaco che lo porterà appena trentenne alla tomba, non riesce a vedere altro che fallimento e assenza: «L’anima tace, Dio tace». La frequentazione dell’anziano curato di Torcy, suo amico e padre, è l’unico sostegno nel vuoto della sua sconfinata solitudine. Costretto dalle emorragie a chiedere ospitalità a un ex compagno di seminario, tubercolotico, che ha abbandonato il sacerdozio per una donna, domanda a colui che adesso è, all’apparenza, soltanto il droghiere Luigi Dupréty, di assolverlo dai suoi peccati. L’amico accondiscende, anche se non nasconde il suo turbamento per il fatto che il curato di Ambricourt è venuto a morire proprio nella sua casa di peccato. «Che cosa importa? Tutto è grazia», replica il sacerdote morente che scopre, adesso, come l’itinerario della sua esistenza sia stato guidato dalla Grazia.
Teresa di Lisieux
Nel libro sono presenti e convergono due diverse sensibilità spirituali: quella di Giovanni Maria Battista Vianney (Dardilly, 8/4/1786 – Ars-sur-Formans, 4/8/1859)  sacerdote francese, reso famoso col titolo di "Curato d'Ars" per la sua intensa attività di parroco in questo piccolo villaggio dell'Ain, quella di Thérèse Françoise Marie Martin (Alençon, 2/1/1873 – Lisieux, 30/9/1897) religiosa e mistica francese, meglio nota come santa Teresa del Bambino Gesù, nome con il quale è venerata dalla Chiesa cattolica. Monaca carmelitana presso il monastero di Lisieux, è talora chiamata anche santa Teresa di Lisieux o santa Teresina, per distinguerla da Teresa d'Ávila. La sua festa liturgica ricorre il 1º ottobre. La mia parrocchia alla Guizza porta il suo nome.
Patrona dei missionari dal 1927, dal 1944 assieme a Giovanna d'Arco, è considerata anche patrona di Francia. Il 19 ottobre 1997 fu dichiarata Dottore della Chiesa, la terza donna a ricevere tale titolo dopo Caterina da Siena è appunto Teresa d'Ávila. 
E' possibile che Bernanos sia anche ispirato alla vita di un giovane sacerdote (l'Abbé Camier), morto di tisi a 28 anni, che ha conosciuto nella sua infanzia.
Vita movimentata quella di Bernanos, grande testimone del travaglio spirituale e morale del suo tempo. Si legge nella prefazione al libro nella edizione di Famiglia Cristiana: Scrittore difficile e straordinario, intellettuale 'scomodo' per qualunque gruppo politico o organizzazione di cui abbia fatto parte…Egli ha proposto con forza la dimensione religiosa dell'esistenza. Il mondo è il teatro dello scontro incessante tra bene e male, tra Dio e Satana, e ogni istante della 'nostra povera vita' è segnato dalla spaventevole presenza del divino'.
Scrisse Bernanos a un altro suo corrispondente «Se il buon Dio vuole veramente da voi una testimonianza»,  «occorre che vi aspettiate di lavorare molto, di soffrire molto, di dubitare di voi stessi incessantemente, nel successo come nell’insuccesso».
Bernanos nasce il 20 febbraio 1888 a Parigi e muore il 5 luglio 1948 a Neuilly sur Seine. Ancora bambino si dà alla lettura di scrittori che contribuiscono non poco a formare la sua personalità. Intrapresi gli studi di Lettere e Giurisprudenza, entra presto in politica aderendo all’Action française, vista quale baluardo contro le degenerazioni repubblicane. Assunta nel 1913 la direzione del settimanale monarchico "L’avant-garde de Normandie", prosegue nel suo impegno di difesa dei valori di sempre, fede, patria, onore, salvaguardati, a suo dire, dal binomio cristianesimo-monarchia. Allo scoppio della guerra, nonostante fosse già stato riformato per varie ragioni di salute, riuscì comunque a farsi arruolare volontario nel 6º Reggimento Dragoni (cavalleria) e riportò numerose ferite sul campo d'onore. Finita la guerra, si sposa con Jeanne Talbert d'Arc, diretta discendente del fratello di Giovanna d'Arco. Da lei avrà sei figli. Si impiega in una compagnia di assicurazioni ma, visto il successo del primo romanzo, Sotto il sole di Satana (1926), si dedica unicamente all’attività letteraria. Dal 1934 al 1937 vive a Palma di Maiorca (Spagna).
Nel 1938 si trasferisce in Brasile, per protestare contro il comportamento della Francia nei confronti di Hitler. Nel giugno 1945, chiamato da De Gaulle, rientra in Francia, ma nel 1946 si reca di nuovo in esilio, a Tunisi, rimanendovi però solo due anni. E' costretto a tornare in patria per tentare un intervento per rimuovere un cancro al fegato nell’ospedale americano di Neuilly, dove lo coglie la morte. In una lettera, vicino al disegno della sua tomba, aveva scritto l'epitaffio: "Si prega l'angelo trombettiere di suonare forte: il defunto è duro di orecchie". Anche lui toccato dal cancro come il curato Ambricourt (cancro allo stomaco) del suo romanzo.
Per farsi un'idea del capolavoro di George Bernanos, guardate il video sulla puntata di CultBook dedicata al romanzo.
Ma cosa volevano dire Teresa di Lisieux, morente per tisi, e Bernanos, tramite il curato di Ambricourt agonizzante per un cancro allo stomaco, con la frase: "Che cosa importa? Tutto è grazia".
Trovo nel dizionario Sabatini Coletti, al lemma grazia, queste definizioni: Concessione miracolosa o favore ottenuto da Dio, chiesto direttamente o per intercessione della Madonna o dei santi…Nel linguaggio teologico, l'assistenza particolare prestata da Dio all'uomo per aiutarlo nel suo cammino verso la salvezza || anno di grazia, espressione usata in passato per indicare gli anni dell'era volgare, con allusione al fatto che la redenzione di Cristo ha riottenuto per l'umanità la grazia di Dio | essere, vivere, morire nella grazia di Dio, col suo favore e liberi dal peccato mortale
Volevano ribadire che la loro morte e la loro sofferenza non importano perchè erano doni di Dio e qindi si rimettevano nelle sue mani ?
Afferma (clicca qui) il cardinale Georges Cottier, teologo del papa, a proposito dell'uso inflazionato della parola grazia: Un altro travisamento, riguardo a quello che Péguy (è stato uno scrittore, poeta e saggista francese, convertitosi al cattolicesimo) definiva «il mistero e l’operazione della grazia», è il vezzo di vedere grazia dappertutto, che appare molto diffuso in ambiente ecclesiastico, anche tra molti autori e oratori che si ritengono esperti di questioni spirituali. È vero che anche santa Teresina di Lisieux, sul letto di morte, ripete la frase «tutto è grazia» per esprimere il proprio abbandonarsi nelle braccia della misericordia divina. La stessa espressione si ritrova nell’ultima pagina del Diario di un curato di campagna di Bernanos. Ma spesso proprio le espressioni che vorrebbero nelle intenzioni affermare la necessità e la libertà dell’azione della grazia finiscono per spargere idee fuorvianti e confondere gli animi.
Scrive il prof. Baingio Pittalis, docente referente del cineforum del liceo scientifico G. Marconi di Sassari (belli i film in agenda ed educativo il cineforum a scuola), nella scheda di presentazione del film: "In un mondo pieno di esistenze 'opache', 'incartapecorite' nelle abitudini o nella difesa ossessiva del benessere materiale, il peccato più grave, più diffuso e meno riconosciuto, perché si insinua vischiosamente senza apparire, è la perdita della speranza, l’indifferenza a tutto e verso tutti, la paura nei confronti di chi si percepisce diverso dalla massa, la mancanza di prospettive, la perdita della fiducia nell’essere umano, il ripiegamento sui propri desideri e ossessioni. E’ come una nebbia che si chiude sull’esistenza e impedisce di comunicare, di respirare, di dare un senso alla vita". “L’inferno è non amare più!”- afferma Bernanos tramite il curato.
Ha scritto il critico letterario, poeta e traduttore Adriano Grande nella prefazione all’edizione Oscar Mondadori del romanzo di Bernanos, Milano 1965: “I personaggi di Bernanos, come quelli di Dostoevskij, ci sono fratelli, sono esseri che abbiamo veramente conosciuto, diventano parte della nostra umanità. A loro ripensiamo sovente come figure della nostra povera, umiliata e tragica realtà quotidiana. Ed è questo il maggior elogio che si possa fare a uno scrittore e a un romanziere: quello di aver egli creato degli esseri, delle figure che si ricordano”.

Dante Gabriel Rossetti,
Il sogno di Dante alla morte di Beatrice (1856)
E' scritto su Famiglia Cristiana: Da Bernanos abbiamo imparato la radicalità del Vangelo e della fede cristiana, il senso della sofferenza, la speranza che tutto, alla fine, come per la sua prediletta Teresa di Lisieux, si ricompone in Dio. «A noi due» furono le sue ultime parole sul letto di morte (nel 1948, a sessant’anni), mentre sua moglie Jeanne lo teneva fra le braccia e recitava per lui il Pater.
Questo post mi ha confuso le idee. Sento che la vita mi sfugge e non ne ho ancora capito del tutto il significato. La speranza e la fiducia vanno e vengono, anche se il mio impegno nel volontariato gratuito non conosce soste. Sarà perché la mia Fede si è affievolita e la Grazia non arriva? L'augurio che faccio a me stesso e a quanti leggono questo post è di non aver paura del cancro e della morte.  Riusciremo, anche noi a dire come Bernanos, in punto di morte: «A noi due»? (ultimo aggiornamento, ore 1.00, martedì 13 novembre).

1 commento:

  1. Ho cambiato il titolo all'una di notte perché sia più chiaro il suo significato al lettore.

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