Angelo della pietà o assassino? |
Nel
destino di ogni uomo è prevista, non si sa però quando e come, la morte o come dicono gli statunitensi, forse la rende meno drammatica, 'passed away' (passato oltre). Le persone
giovani e quelle che godono di buona salute non pensano alla morte, ogni
tanto affiora nei nostri pensieri o ci coinvolge per la perdita di
qualche persona cara, ma siamo spesso convinti che non ci riguardi.
Quando però ti ammali di "cancer", uso i lemmi francese o inglese, perchè foneticamente più dolci, essa ti appare più vicina e ti crea ansia.
L'idea per questo post mi è venuta dopo aver visto alla tv, il 16 gennaio 2013, il film "You Don't Know Jack" (Tu non
conosci Jack) del 2010, comunemente conosciuto come "Dr. Death" (Dr.
Morte).
E'
un film televisivo della HBO, per la regia di Barry Levinson, con protagonista Al Pacino nella
parte di Jack. Per quell'interpretazione Pacino ha vinto un Golden Globe.
Il film racconta la storia di Jacob "Jack" Kevorkian (Pontiac (Michigan), 26 maggio 1928 – Royal Oak (Michigan), 3 giugno 2011), medico, pittore e compositore statunitense.
Il film racconta la storia di Jacob "Jack" Kevorkian (Pontiac (Michigan), 26 maggio 1928 – Royal Oak (Michigan), 3 giugno 2011), medico, pittore e compositore statunitense.
Di
ascendenza armena, secondo di tre figli, Kevorkian è noto per aver praticato il
suicidio assistito su 129 malati terminali, e per aver praticato l'eutanasia
sul 130esimo paziente. Kevorkian, medico patologo, dopo essersi diplomato con
lode all'età di 17 anni, si è laureato nel 1952 alla Medical School
dell'Università del Michigan, ad Ann Arbor.
Per
i suicidi assistiti Kevorkian aveva inventato due macchine, il Thanatron (macchina
della morte, quella più utilizzata) e il Mercitron (macchina della pietà): la
prima era una specie di macchina per l'iniezione letale, mentre la seconda
uccideva con il gas. E' importante sottolineare che Kevorkian non azionava
personalmente le macchine: collegava l'aspirante suicida all'aggeggio ed era
lui a premere il pulsante.
Molti dei suoi pazienti non erano malati terminali, ma per lui non era importante: What difference does it make if someone is terminal? We are all terminal. (Che differenza fa se qualcuno è terminale? Siamo tutti terminali).
Molti dei suoi pazienti non erano malati terminali, ma per lui non era importante: What difference does it make if someone is terminal? We are all terminal. (Che differenza fa se qualcuno è terminale? Siamo tutti terminali).
Si legge nel comunicato Adnkronos/Dpa del 13.03.1999: E' stato condannato ad un minimo di 10, ed un massimo di 25, anni
Jack Kevorkian, il ''dottor morte'' ritenuto colpevole dell'omicidio del
suo paziente Thomas Youk. Il giudice Jessica Cooper ha emesso oggi la
sentenza, dopo che la giuria aveva decretato il mese scorso la
colpevolezza del 70enne medico sostenitore dell'eutanasia, ed ha
duramente criticato i metodi usati dal medico che in passato ha
assistito il suicidio di 130 malati terminali. Il 'dottor Morte'' e'
stato condannato anche a tre, massimo sette, anni per possesso e
somministrazione di farmaci controllati.
Negli altri processi che il medico del Michigan ha affrontato non si era mai arrivati ad una condanna - due assoluzioni e una giuria incapace di arrivare ad un verdetto - ma questa volta al centro del processo è stato il video, mandato in onda dal noto programma della Cbs ''60 Minutes'', che mostra come Kevorkian iniettò lui stesso il cocktail di farmaci letali nel braccio del paziente. Così questa volta l'incriminazione non è stata per violazione delle leggi che bandiscono il suicidio assistito, ma per omicidio.
''Quando lei volontariamente ha iniettato sostanze che sapeva essere letali - ha detto la Cooper rivolgendosi direttamente all'imputato - lei ha commesso un omicidio. Lei ha ignorato e sfidato la legge e la Corte Suprema, lei ha pubblicamente e ripetutamente annunciato l'intenzione di rompere la legge e sfidato il governo e la società a fermarla. Ecco, si ritenga fermato''. Il giudice ha ricordato che gli elettori del Michigan hanno respinto il referendum che chiedeva di abolire il bando all'eutanasia. Anche la Corte Suprema si è espressa contro l'abolizione del bando.
Negli altri processi che il medico del Michigan ha affrontato non si era mai arrivati ad una condanna - due assoluzioni e una giuria incapace di arrivare ad un verdetto - ma questa volta al centro del processo è stato il video, mandato in onda dal noto programma della Cbs ''60 Minutes'', che mostra come Kevorkian iniettò lui stesso il cocktail di farmaci letali nel braccio del paziente. Così questa volta l'incriminazione non è stata per violazione delle leggi che bandiscono il suicidio assistito, ma per omicidio.
''Quando lei volontariamente ha iniettato sostanze che sapeva essere letali - ha detto la Cooper rivolgendosi direttamente all'imputato - lei ha commesso un omicidio. Lei ha ignorato e sfidato la legge e la Corte Suprema, lei ha pubblicamente e ripetutamente annunciato l'intenzione di rompere la legge e sfidato il governo e la società a fermarla. Ecco, si ritenga fermato''. Il giudice ha ricordato che gli elettori del Michigan hanno respinto il referendum che chiedeva di abolire il bando all'eutanasia. Anche la Corte Suprema si è espressa contro l'abolizione del bando.
La
trama del film è la seguente, riporto la recensione di Giancarlo Zappoli su mymovies:
"Jack Kevorkian è un anziano medico di
origine armena che, in un periodo che va approssimativamente dal 1990 al 1999,
ha assistito nel suicidio più di 130 pazienti. Ne seguiamo l'azione a partire
dal primo malato che, a causa delle ormai insostenibili sofferenze che gli procura
la malattia, gli fa esplicita richiesta di morire. Kevorkian sostiene che chi è
affetto da una patologia grave e incurabile e vuole lasciare questo mondo ha
diritto di farlo. Per aggirare la legge del Michigan il medico ha realizzato e
mette in atto, con la collaborazione di sua sorella e dell'amico Neal Nicol,
una complessa strategia. Riprende le dichiarazioni dei pazienti (con a fianco i
familiari) da cui emerga il loro esplicito e consapevole desiderio di non
vivere più. Predispone quindi un'attrezzatura che il malato aziona
personalmente. Ciò gli procura comunque numerose chiamate in giudizio da cui
esce assolto. Fino a quando, dinanzi a un paziente non in grado di intervenire
in quanto leso nella motilità, agisce con un'eutanasia 'volontaria'. A quel
punto la sua posizione sul piano legale cambia anche perché decide di non fare
uso di avvocati ma di difendersi da solo.
Barry Levinson lascia la commedia, genere in
cui ha offerto esiti alterni, per realizzare un biopic in grado di interrogare
le coscienze, in particolare di un pubblico non statunitense . Perché il dottor
Jack Kevorkian è stato a lungo sotto i riflettori dei media americani con
interviste nello show di Barbara Walters e conquistando anche una copertina del
Time mentre alle nostre latitudini è molto meno noto. Ci pensa uno
straordinario Al Pacino a far emergere le molteplici facce di un personaggio
che inevitabilmente e volutamente stimola alcuni nervi scoperti della nostra
sensibilità. Il rapporto con il dolore e con la morte, i doveri del medico, il
ruolo dello Stato in relazione ai temi che toccano l'etica individuale. Sono
solo alcuni dei temi affrontati da un film che non abbraccia alcuna tesi, che
non è interessato a fare del suo protagonista né un eroe, né una vittima né
tantomeno un santo.
Questo non significa che Levinson si limiti
ad elencare una serie di eventi. Decide piuttosto di mostrarci la
determinazione di questo uomo anziano e apparentemente fragile nel sostenere
con la pratica quello che lui ritiene sia un diritto (morire con dignità) che
viene sistematicamente negato dalle strutture ospedaliere e dall'industria
farmaceutica entrambe interessate a lucrare su un disumano prolungamento
artificiale della vita. Nello sguardo e nelle espressione di Kevorkian Pacino
ci fa anche leggere come una 'missione' possa trasformarsi in un'ossessione
alla quale l'Arte (Kevorkian è anche pittore e strumentista) cerca di offrire
pause di sublimazione che risultano però estremamente brevi.
You Don't Know Jack finisce così con il
lasciarci con una domanda diversa rispetto a quella che ci potremmo attendere.
Non ci viene chiesto di formulare una sentenza sul dottor Jack Kevorkian (lo
hanno già fatto i tribunali). Ci viene invece chiesto di provare a pensare di
vivere in una situazione di malattia terminale in cui il dolore domina
irreversibilmente e di porci una domanda che non riguardi ciò che vorremmo
imporre agli altri (sarebbe estremamente facile) ma cosa vorremmo per noi
stessi. Rispondere diventa allora più complesso. Come questo film".
Riporto anche l'articolo
di Marina Corradi apparso su l'Avvenire di sabato 15 giugno 2006 (Kervokian era gravemente ammalato), prima
dell'uscita del film avvenuta nel 2010, dal titolo: Il dottor Morte vuol
vivere - Contraddizione che conferma l'istinto del cuore umano - Datemi un'alba
ancora
"È ridotto a 50 chili di peso, può a
stento stare in piedi e non ha più la forza di leggere o di scrivere, nella
cella di prigione in cui è chiuso. Jack Kevorkian, l'uomo che i giornali di
tutto il mondo chiamavano il "dottor Morte" per avere aiutato a
morire 130 malati, a 78 anni è ormai, dice il suo avvocato, "un cadavere
che cammina". Eppure il medico, in un'intervista a un quotidiano di
Detroit, dichiara che non chiederebbe, per se stesso, l'eutanasia. "Non
sono mai stato un teorico del suicidio assistito, ho sempre affermato
semplicemente il diritto di morire per chi, in condizioni di irrimediabile e
insopportabile malattia terminale, lo domandi".
E tuttavia Kevorkian, che ora appare molto
vicino a quelle condizioni che giudicava meritevoli di questa scelta, non vuole
morire. Non vuole, benché inchiodato a un destino che i sostenitori
dell'eutanasia riterrebbero intollerabile, perdere un solo giorno di vita -
della sua vita penosa, chiuso da sette anni in una cella di un carcere nel
Michigan e con una condanna ancora lunga da scontare per avere praticato
l'eutanasia a un malato, la cui "dolce morte" fu trasmessa dalla Cbs
in tutti gli States.
Il dottor Morte, a quella sua vita ormai
martoriata e prigioniera, non ha voglia di rinunciare.
Il dottor Morte non si arrende: quattro volte ha chiesto, a causa delle sue condizioni, di essere rimesso in libertà, quattro volte quella libertà gli è stata negata dagli inflessibili tribunali americani. Una nuova occasione potrebbe presentarsi nel luglio del 2007, ma non è detto che fra un anno il condannato sia vivo.
E tuttavia quest'uomo ischeletrito, che impressiona chi lo incontra per la morte che sembra avere alle calcagna, questa volta non ha fretta: non crede, non gli sembra che la sua fatica a stare in piedi, a ingoiare un boccone, che il suo trascinarsi stentato siano così disperati da meritare una fine rapida, e un giorno di meno.
Oltre alla pietà per la sorte di chi ha frequentato per tutta la vita la morte - in una intimità che contraddice l'inimicizia istintiva fra gli uomini e la loro ultima ora- e che adesso, alle soglie degli ottant'anni, le si trova come incatenato, nessuno dei due disposto a cedere di un passo, viene davanti a questa storia da pensare a ciò che testimoniano i medici dei reparti dei malati terminali. E cioè che, contrariamente alla vulgata mediatica corrente, i pazienti più gravi, quando siano liberati dal dolore più aspro, non chiedono di morire, ma di vivere. Che, proprio sul limite estremo della morte, è l'istinto di vita che insorge, e domanda: ancora un mese, un giorno. Ancora la faccia di tuo figlio, vicina. Un'alba, ancora.
Il dottor Morte non si arrende: quattro volte ha chiesto, a causa delle sue condizioni, di essere rimesso in libertà, quattro volte quella libertà gli è stata negata dagli inflessibili tribunali americani. Una nuova occasione potrebbe presentarsi nel luglio del 2007, ma non è detto che fra un anno il condannato sia vivo.
E tuttavia quest'uomo ischeletrito, che impressiona chi lo incontra per la morte che sembra avere alle calcagna, questa volta non ha fretta: non crede, non gli sembra che la sua fatica a stare in piedi, a ingoiare un boccone, che il suo trascinarsi stentato siano così disperati da meritare una fine rapida, e un giorno di meno.
Oltre alla pietà per la sorte di chi ha frequentato per tutta la vita la morte - in una intimità che contraddice l'inimicizia istintiva fra gli uomini e la loro ultima ora- e che adesso, alle soglie degli ottant'anni, le si trova come incatenato, nessuno dei due disposto a cedere di un passo, viene davanti a questa storia da pensare a ciò che testimoniano i medici dei reparti dei malati terminali. E cioè che, contrariamente alla vulgata mediatica corrente, i pazienti più gravi, quando siano liberati dal dolore più aspro, non chiedono di morire, ma di vivere. Che, proprio sul limite estremo della morte, è l'istinto di vita che insorge, e domanda: ancora un mese, un giorno. Ancora la faccia di tuo figlio, vicina. Un'alba, ancora.
Misterioso destino di un uomo che ha
preferito per gli altri, nel nome di ciò che chiamava pietà, e pur essendo un
medico, dare la morte all'accompagnare a morire. Scoprire, a 78 anni e ridotto
alle ossa, e al pensiero, che di vivere pure in questo modo, e solo, e in una
cella - ciò che i suoi 130 pazienti non avrebbero forse sopportato - vale
ancora la pena.
Un uomo forte, deciso, capace per le sue
idee di sfidare la legge e affrontare il carcere, piegato da cosa? Forse dalla
esperienza nella propria carne, quella ineludibile che si prova davvero quando
la vita in gioco, e il respiro, e la luce che non rivedrai, è la tua.
Dopo una vita passata a corteggiare la
morte, a darla, a condursela accanto, solo alla fine il dottore ha riconosciuto
il volto vero della sua compagna.
E ha detto no. Che
non venga prima, che mi sia dato, in questa cella angusta, un po' di tempo.
Per vivere. Per un'alba, ancora".
Per vivere. Per un'alba, ancora".
Jack Kervokian, War |
Ma
Jack, che pareva moribondo nel 2006, si riprese e uscì di prigione nel 2007 dopo aver
scontato otto anni e con la promessa che non avrebbe più praticato suicidi assistiti. Mantenne la promessa, ma portò avanti la sua
campagna in favore della "dolce morte".
Da
tempo malato ai reni e al cuore, nel maggio del 2011, venne ricoverato
all'ospedale William Beaumont di Royal Oak, dove morì il 3 giugno 2011 a causa
di una trombosi polmonare.
Cito anche il romanzo di Kurt Vonnegut: Dio ti benedica, Dr. Kevorkian. In questo volumetto edito da Eleuthera, Vonnegut è un inviato radiofonico che scivola
avanti e indietro sulla soglia della vita, grazie a un uso letterario
della macchina per l'eutanasia del famoso "dott. Morte". Di lì
intervista una ventina di personaggi defunti, tra cui Isaac Newton, Mary
Shelley, John Brown, Adolf Hitler, William Shakespeare, Isaac Asimov...
I suoi quadri sono macabri, come questo che ho riportato dal titolo: "Guerra".
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