Il post di oggi l'ho intitolato: Il cancer rende le persone migliori, più buone!?
Ho messo il punto esclamativo e quello interrogativo perchè non c'è una risposta univoca. E' mia impressione, però, che si diventa più buoni, migliori ma soprattutto più umani. Ho conosciuto recentemente una bella coppia che sta combattendo con un 'cancer' importante. A loro va la mia solidarietà e la mia compassione. Compassione e pietà sono assai differenti. Mentre la compassione riflette l'anelito del cuore a immedesimarsi e soffrire con l'altro, la pietà è una serie controllata di pensieri intesi ad assicurarci il distacco da chi soffre. (Paul C. Roud)
Dedico a loro, in particolare, a chi patisce un cancer al
cervello questo post. L'idea mi è venuta leggendo il post"Si
può scherzare sul (proprio) tumore" della giornalista Stefania Ulivi scritto il 18 maggio 2011. Stefania
lavora al Corriere da oltre vent’anni, prima
al quotidiano, poi a Sette, ora
all’online (scrive di cinema e musica). Ricordo la poesia di Angela: Non togliermi mai la speranza di potercela fare, anche se sei convinto
del contrario: la speranza può fare miracoli proprio dove voi medici l’avete
perduta. Purtroppo per due donne citate nell'articolo, la speranza di potercela fare è svanita, sono 'passed away', ma i loro blog continuano a vivere. A tutti i 'cancer blogger' piacerebbe che il loro blog non morissero con loro!!
Anna Lisa |
Scorrendolo trovo questo post scritto il 14 settembre 2011 dal titolo '2 MESI'.
Era il 14 luglio
2011 quando mi ricoverarono in oncologia. Dopo poco mi
spostarono qui nell' hospice dicendomi che sarei rimasta solo un paio di
giorni. Invece soo (sono) già due mesi che sono qua e, sinceramente, io vorrei tanto
andarmene. No, non è corretto:
non vorrei andarmene, ma vorrei STAR BENE E ANDARMENE, questo sì.
E invece non vedo
nessun miglioramento: continuo a dipendere dall'ossigeno, dalla morfina e da
tutti gli altri farmaci. Non sono certamente
due giorni di ricovero e, a questo punto, nemmeno due mesi.
Quanto resterò
ancora qui?
Alaina, Sofia e Bud |
Samantha |
Samantha ha 26 anni, vuole fare l’attrice e, intanto, lavora in una clinica. Quando, l’anno scorso, ha scoperto di avere un tumore al cervello, ha aperto il suo blog, rubando il titolo - A lie of the mind – a una pièce di Sam Shepard che ha interpretato in teatro. Lo spirito è riassunto nella frase: “Brain tumors are funny, but they’re not hilarious”, ovvero i tumori al cervello sono buffi ma non divertenti. Samantha scrive quello che le passa per la testa, letteralmente: i pensieri, i dolori, le ferite dell’operazione, le sofferenze della chemioterapia, i capelli che vanno e vengono, gli amici, la musica, il teatro, gli effetti della radioterapia. L’ultimo post è proprio sulla radio: “Quello che i dottori non mi avevano detto è che con le radiazioni avrei avuto anche un’abbronzatura gratis. Che bisogno c’è di abbronzarsi quando puoi avere il miglior colorito della città?” C’è una sola cosa che Samantha (qui sopra con la spada della principessa She Rah, ricevuta in regalo) non riesce a fare: smettere di essere se stessa. Buffa, divertente, vitale, feroce, irriverente, coraggiosa. Né migliore, né peggiore di prima della malattia. Quando io ho scoperto di avere un tumore al seno - quattro anni fa, di questi tempi – mi sono ritrovata a fare i conti, oltre con la realtà della malattia, con la retorica che l’accompagna, almeno da noi. Retorica che si basa su un assunto: la malattia rende le persone migliori, più buone. Ma perché? Ma chi l’ha detto? E’ come se la diagnosi di tumore, una parola che continua a far paura (vogliamo parlare di quante volte anche sui giornali si preferisce la formula feroce e, per fortuna, imprecisa, “malattia incurabile”?), ti trasformasse improvvisamente nell’icona del “paziente”, che cerca, eroico e rassegnato, di abbozzare un sorriso quando riceve la visita di non malato e si tiene tutta per sé la sofferenza. E invece no.
Parlo per me, ovviamente, non mi permetto di generalizzare. Ma tra tutti gli stati d’animo di questi anni, la pazienza non è compresa. Una diagnosi di tumore – anche quando tutto va bene – chiama in causa, tra le tante cose, il tuo rapporto con il tempo: riguarda tutti, certo, ma, insomma, che c’è una data di scadenza all’orizzonte lo capisci bene. Dunque, pazienza e rassegnazione proprio no. Meglio essere quel che si è sempre stati, come Samantha, come le cancer blogger raccolte nel gruppo web oltreilcancro: julia, anna staccato lisa, camden, widepeak, e molte altre (anche qualche altro, ma sono soprattutto donne). Persone tutte diverse tra loro, a cui il cancro non ha cancellato il senso dell’umorismo (e non l’ha fatto venire se non ne erano dotate). ”La prossima volta che sento ripetere che la cellulite è una malattia spacco il televisore, giuro”, scrive una di loro. Io ho avuto l’enorme fortuna -, oltre ad essere circondata da persone fantastiche, loro sì pazienti, che, volendomi bene, sapevano che io lo sarei stata assai poco – di condividere il periodo delle cure e della chemioterapia con un’amica, da allora diventata una sorella. La mia chemical sister. Io tumore al seno, lei linfoma. Un po’ sceme (scusa sister) tutte e due. Avessero intercettato le nostre telefonate ci avrebbero ricoverate non all’Istituto Tumori o all’Ieo, ma in un reparto psichiatrico. Si può scherzare sul proprio tumore? Io (ma, ripeto, parlo per me) penso di sì. Ridere fino alle lacrime e piangere fino a ridere.
Quello che non si può fare, visto che siamo in argomento, è nominare il tumore per offendere: il cancro della democrazia? Quella è una metastasi? Significa dare un calcio in faccia a tutti i malati. E pure a chi non lo è. Ultima cosa, questo è l’indirizzo per firmare la petizione per Alaina, la donna a cui la giustizia Usa vuole togliere i figli “perché ha il cancro”, di cui ha scritto Alessandra Farkas sul “Corriere della sera” e sul suo blog. Buona parte delle cancer blogger è madre, mica per altro: parte di chi si ammala ha figli, anche se ai giudici americani non piace.
Quando ho saputo di essermi ammalata il primo pensiero è stato come dirlo a mio figlio. Mi ha aiutato la mia frequentazione con il cinema e i fumetti e un avvertimento che mi aveva dato l’oncologo: mi disse di non spaventarmi perché dopo la chemio avrei fatto la pipì rosso fuoco (per via di un farmaco). A otto anni gli è sembrato assolutamente normale che la mamma sarebbe stata per un po’ una specie di Incredibile Hulk, pipì rossa (bel particolare splatter da raccontare agli amici), cranio pelato preceduto da un taglio manga a cui ha contribuito anche lui, salvo poi tornare più bella che mai (vabbé, si fa per dire…).
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