Elisabetta Iannelli |
In un precedente post ho citato il libro “Non chiedermi come sto ma dimmi cosa c'è fuori. Testimonianze di giovani malati di tumore".
Si tratta evidentemente di giovani ricoverati che non possono uscire
dall'ospedale. Suggerisco di non chiedere a persone che stanno
combattendo contro una patologia importante: Come stai? Come
volete che vi rispondano? Se sono ricoverati in Ospedale dite loro cosa c'è
fuori, se invece li incontrate per strada fate loro un bel sorriso,
capiranno la vostra vicinanza e affetto!
Nella Rassegna Stampa dello IOV trovo questa
testimonianza del Segretario Favo (Federazione delle
associazioni di volontariato in oncologia)
Elisabetta Iannelli apparsa
sul Sole24ORE - Salute di martedì
29.01.2013. L'ho confrontata con la testimonianza di Angela Pasqualotto, presidente dell'associazione "Angolo", sezione di Padova, che ho
riportato nel post dal titolo: Il
peso delle parole.
Diceva Angela: Quando
leggo o sento l’aggettivo incurabile riferito al cancro, io rabbrividisco…
rabbrividisco perché quella parola potrà essere letta o ascoltata da chi il
cancro lo sta vivendo... e sta affrontando la chemioterapia, la radioterapia o
l’intervento chirurgico…una parola può sollevarti e darti speranza, o
ucciderti… è vero che il cancro può essere incurabile, ma è anche vero il contrario.
Quando
parliamo dobbiamo sempre ricordarci che ciò che per noi può essere innocuo, per
altri potrebbe essere una lancia che trafigge.
LA TESTIMONIANZA di Elisabetta Iannelli
Quante notizie, atteggiamenti,
frasi, irritano o addirittura feriscono i malati di tumore? Quanti ancora i pregiudizi
che stigmatizzano la malattia e rendono ancor più difficile e pieno di ostacoli
il già duro cammino verso la guarigione o la
cronicizzazione? Si potrebbe obiettare che non è facile saper stare accanto e
sostenere una persona che si trova, all'improvviso, a dover affrontare il
cancro. Solo la parola incute un timore cieco quando non è accompagnato da
odiosa scaramanzia.
È anche vero che il malato
diventa spesso insofferente, facilmente irritabile, intollerante, forse
eccessivamente sensibile e permaloso e che, quindi, anche i parenti e gli amici
devono fare i conti con la mutata condizione cui adeguarsi, per poter vivere accanto
al malato e condividere le emozioni e le risorse necessarie ad affrontare la
crisi oncologica.
L'esperienza maturata sul campo suggerisce
in primo luogo di evitare atteggiamenti superficiali che hanno l'effetto,
spesso inconsapevole ma non per questo meno intollerabile, di banalizzare la
malattia e di allontanare il dramma quasi a volerlo rifiutare.
Frasi come: «Forza e coraggio...,
con le cure che ci sono oggi..., ma non ti preoccupare dei capelli sono il male
minore...» provocano reazioni, non sempre esplicitate, di insofferente rabbia e
delusione verso chi le ha pronunciate accompagnate da un retro pensiero: «Ma cosa ne puoi sapere tu? Mica hai il
cancro!». Fermarsi un momento per dedicarsi all'ascolto di chi sta vivendo un
momento difficile della propria vita, spesso, è molto più che tante, insignificanti
parole.
Ancor più insopportabile è la
comunicazione anche non verbale di significato pietistico o anche solo pietoso.
Guai! Guai, ad avvicinarsi a un
malato con frasi del tipo «poverino...,
mi dispiace tanto per te..., devi stare proprio male...». Ma attenzione
anche a complimenti forzati ed esagerati come «stai benissimo, non sembra che tu sia malata o che stia facendo la
chemioterapia».
Anche le dichiarazioni di
ammirazione per il coraggio e la forza dimostrati nell'affrontare la malattia servono
a poco, dal momento che nessuno di noi conosce le risorse interiori di cui
potrebbe disporre nel momento della necessità e poi sentirsi degli eroi perché
si ha il cancro non fa piacere a nessuno. Chiunque, se potesse, preferirebbe la salute
all'eroismo. «Certo che il tuo è proprio
un miracolo, chi l'avrebbe mai detto?». E certo, fa piacere sentirsi un
sopravvissuto scampato a morte certa oppure un men dead walking (un morto che cammina).
Eppure quante volte sono state
dette frasi così anche dai medici.
Tutto questo non significa che l'unica
comunicazione possibile sia il silenzio, ma la spontaneità e la disponibilità all'ascolto
sono le chiavi per entrare nel cuore della persona che si ammala per esserle
vicino e sostenerla nell'affrontare ed elaborare l'esperienza che si trova a
vivere. E allora, e solo allora, insieme si potrà anche ridere, riflettere,
arrabbiarsi, sfogarsi e riprendersi la vita.
Rischiose, oltre che inutili, le
affermazioni che indicano come falsi miti la pericolosità di uso e abuso di
fumo e alcol o quelle sull'inutilità della prevenzione e dei corretti stili di
vita (alimentazione, peso, movimento).
Ma c'è un aspetto ancora poco
noto e disconosciuto della malattia oncologica: la cronicità. I malati cronici
di cancro o lungosopravviventi
oncologici non sono una semplice speranza: sono realtà, esistono e saranno
sempre di più perché di cancro ci si animala sempre di più e con il cancro si convive
sempre più a lungo (quando la guarigione non è possibile). Ma i cancer survivor
rischiano di essere disabili invisibili perché, anche a causa dei falsi
pregiudizi e per evitare ingiuste discriminazioni sociali e lavorative, spesso
scelgono la via del silenzio e dell'oblio.
«Se
lo nego non t'accorgi se lo dico ti sconvolgi». Questo il senso di un
atteggiamento difensivo e di negazione di una parte del proprio percorso di
vita che serve, o almeno si pensa che serva, a evitare lo stigma e a ritornare
alla "normalità" precedente la diagnosi. Ma la vita dopo il cancro non
è mai, mai più, la stessa, spesso è più ricca, almeno interiormente, e solo
sfatando certi falsi miti e facendo outing si potrà arrivare al giusto e sereno
riconoscimento di una vita riconquistata dopo la malattia o con la malattia. E
inaccettabile doversi nascondere per il timore di essere esclusi dai rapporti
sociali o, ancor più preoccupante, di essere allontanati dal lavoro.
La cronicità oncologica è, ancor
oggi, un profilo appena abbozzato nell'immaginario collettivo, che teme il
cancro come malattia comunque mortale, anche se curabile con grandi sofferenze
e per periodi di tempo limitati. La cronicità oncologica, anziché opportunità
di vita, rischia di diventare una condizione di intensa sofferenza, se non è affrontata
e supportata adeguatamente nella sua complessità che investe non solo la
dimensione strettamente clinica del problema (nelle sue accezioni mediche e
psicologiche) ma anche la sfera familiare, lavorativa, economica e sociale del
malato.
Devono
essere valorizzate e fatte conoscere sempre di più le vite di donne e uomini
che dopo un tumore ritornano alla vita di tutti i giorni. Un forte messaggio di
speranza da cui può partire la rivoluzione anche culturale nei confronti del
cancro. Insieme possiamo!
Gli
entusiastici proclami di formidabili scoperte scientifiche che promettono la
definitiva sconfitta del tumore fanno male ai pazienti che mal tollerano certa
superficialità nel creare aspettative che spesso si rivelano illusorie o
comunque lontane dalla realtà attuale.
Certamente,
negli anni, la percezione nei confronti del cancro si è evoluta, ma nel vissuto
sociale e nell'immaginario collettivo è rimasta qualche passo indietro rispetto
ai risultati ottenuti dalla comunità scientifica: quante volte si sente ancora
dire «brutto male»... come se la malattia potesse essere bella, o peggio,
quando si parla di «un male incurabile», mentre è proprio la persona che non ha
speranza di guarire a potere, anzi dovere essere curata.
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