Sergio Harari |
Trovo
nella rassegna stampa dello IOV e dell'Azienda ospedaliera di Padova un
interessante articolo di Sergio Harari, Direttore Unità operativa di Pneumologia
Ospedale San Giuseppe di Milano, pubblicato nel Sole 24 Ore Sanità del 19
febbraio 2013, dal titolo "Perché la cura parte da un racconto".
L'occasione
è la nascita dell' «Associazione
Peripato», una APS di cui Harari è presidente, per la formazione e la ricerca in campo
biomedico, socio-sanitario, ambientale, culturale e per la promozione dei
diritti umani e sociali.
Dal sito dell'Associazione riporto la biografia di Sergio Harari: si è laureato in medicina e chirurgia
e specializzato a Milano in Malattie
dell'apparato respiratorio, Anestesia e Rianimazione, Chemioterapia e ha
trascorso periodi di formazione post-laurea in Francia e America. È stato uno
dei primi medici a occuparsi di trapianti polmonari in Italia e ha attivamente
contribuito all'avvio dell'attività di trapianto polmonare nel nostro Paese.
Nel 1999 ha fondato l'Unità Operativa di Pneumologia all'Ospedale San Giuseppe
di Milano, che è oggi un Centro di riferimento nazionale per la diagnosi e la cura
di malattie polmonari rare. È autore di numerose pubblicazioni su riviste
internazionali peer-reviewed ( valutazione tra pari o revisione dei pari) e di
testi specialistici. All'attività assistenziale clinica associa attività
didattica e di pubblicazione e divulgazione scientifica anche su temi di
politica sanitaria, sociali e ambientali.
Sottolineo
e concordo con queste tre frasi del dottor Harari: La mancanza di contatto umano, conseguenza
di una medicina dove la tecnologia sembra aver prevalso su tutto, ha fatto
perdere ai dottori la consapevolezza del potere anche taumaturgico del
"gesto" medico, di come la storia clinica di un paziente possa
cambiare sapendolo "assistere" nel suo percorso di malattia. Gli
ospedali non sono più fatti per questo, la cura è concentrata in un asettico
tecnicismo, e la medicina moderna ha assecondato questa pericolosa deriva.
Recuperare la dimensione umana non sarà facile ma è indispensabile per
ricostruire un percorso di comunicazione tra cittadini e Sanità.
Perché la cura parte da un racconto
Marguerite
Yourcenar in "Memorie di Adriano" faceva dire al suo protagonista: «L'occhio del medico non vede in me che un
aggregato di umori, povera amalgama di linfa e sangue». Oggi la medicina
non si occupa di umori ma di pezzi di uomini e non di persone, c'è lo
specialista della caviglia, della spalla, della valvola cardiaca, dell'asma ma
non della bronchite e viceversa. Ma la medicina non è questa e credere che lo
sia è come vedere attraverso una lente deformante rapporti, aspettative,
problemi. Una prospettiva fuorviante anche professionalmente; saper ascoltare,
osservare, capire, intuire fa ancora parte integrante dell'arte medica.
L'
«Associazione Peripato» è nata recentemente per ricongiungere medicina e
cultura e, attraverso la cultura, ricostruire quel tessuto di relazioni e
sensibilità all'ascolto che la medicina ha perso per strada.
Un
tempo, quando Aristotele passeggiava lungo i peripatoi, i colonnati del suo
liceo ateniese, insegnava non solo filosofia ma anche biologia e anatomia;
allora scienza e filosofia sembravano un unicum indissolubile. Oggi in
medicina, con le metodologie moderne e avanzate, si fanno diagnosi in tempi più
rapidi e si guariscono malattie un tempo incurabili, ima ci si dimentica il
resto. Un resto fatto di tempo per parlare con il malato, stare con lui,
discutere i suoi problemi e capire cosa gli sta accadendo, non solo guardando
la stampata dei suoi ultimi esami del sangue.
Siddhartha
Mukherjee, un giovane oncologo americano, nel suo libro "L'imperatore del
male", vincitore del premio Pulitzer 2011, racconta la storia della
battaglia contro il cancro dagli antichi egizi a oggi e descrive molto bene
tanti aspetti della medicina e del rapporto medico-paziente. In uno di questi
passaggi scrive: «La medicina comincia
con un racconto. I pazienti raccontano storie per descrivere una malattia, i
dottori raccontano storie per comprenderle. La scienza racconta la propria
storia per spiegare la malattia». Forse ci siamo dimenticati di tutto
questo, forse ci siamo persi per strada un pezzo del significato della
medicina.
Non
è un problema del singolo medico, è una deriva della medicina moderna, il
prezzo da pagare per un'arte diventata scienza, prima che qualcuno se ne
rendesse conto, la più umanistica tra le scienze. Ma il paziente non è
un'equazione matematica, e non vince il dottore che risolve il problema prima e
meglio, o il chirurgo che opera con minori perdite di sangue, in tempi più brevi
e con una cicatrice più corta, o almeno non è solo così. Altrimenti non si
spiegherebbe perché molti pazienti, anche sofferenti per gravi malattie,
migliorano e addirittura sopravvivono più a lungo quando assumono un placebo,
ovvero una sostanza inerte. La medicina in questi ultimi decenni è sembrata
prendere la strada riservata ad altre scienze, un percorso fatto di tecnicismo
e razionalità ma, come Tiziano Terzani in "Un altro giro di giostra"
faceva dire allo psicanalista Erich Fromm: «Il
paziente non lo sa, ma il vero medico è quello che ha dentro di sé. E noi
abbiamo successo quando diamo a quel medico la possibilità di fare il suo
lavoro».
La
mancanza di contatto umano, conseguenza di una medicina dove la tecnologia
sembra aver prevalso su tutto, ha fatto perdere ai dottori la consapevolezza
del potere anche taumaturgico del "gesto" medico, di come la storia
clinica di un paziente possa cambiare sapendolo "assistere" nel suo
percorso di malattia. Gli ospedali non sono più fatti per questo, la cura è
concentrata in un asettico tecnicismo, e la medicina moderna ha assecondato
questa pericolosa deriva. Recuperare la dimensione umana non sarà facile ma è
indispensabile per ricostruire un percorso di comunicazione tra cittadini e
Sanità.
Nel
libro "Medici umani, pazienti guerrieri. La cura è questa", scritto a
quattro mari da Giangiacomo Schiavi e da Gianni Bonadonna, uno dei più famosi
oncologi al inondo che colpito da un ictus è stato ridotto all'infermità, si
legge: «Per dare una speranza bastano un gesto,
un sorriso, la fiducia in un medico, la vicinanza di una persona cara.
L'attenzione e l'ascolto sono una grande cura». Chi, anche medico, ha avuto
l'occasione di essere malato e di stare "dall'altra parte" ne ha
avuto la prova diretta. Riavvicinare la cultura umanistica alla medicina in
chiave moderna, aiutando a ricongiungere la medicina all'uomo, superando
barriere costruite in decenni di rapidissima evoluzione delle cure e delle
tecnologie disgiunte da una cultura che si è persa su un binario ormai troppo
lontano e separato: Peripato vorrebbe questo. E un tentativo per rimettere in
linea due binari che non possono più essere disgiunti e che tracciano la strada
comune della nostra vita.
L'associazione
è stata presentata al pubblico lo scorso ottobre in occasione di una tavola
rotonda con un importante filosofo della scienza, un grande immunologo e un
comico, per riaffermare la trasversalità di arte, cultura e medicina.
L'iniziativa era stata preceduta da un sondaggio online sul rapporto medico-paziente
che in pochi giorni aveva collezionato oltre 2.500 click. Il 21 febbraio
prossimo Peripato organizza a Milano con Fetrinelli, presso la libreria di
Piazza del Duomo, un "brain storming" sui virus: il giornalista
medico Edoardo Rosati modererà due scienziati, Alberto Mantovani e Giovanni
Ippolito, e due scrittori di fiction, Gianfranco Manfredi e Gianfranco Nerozzi,
sull'eterna paura della pandemia virale, in un dibattito a cavallo tra scienza
e fantascienza. E inoltre in programma per il prossimo ottobre a Milano un
festival della Salute, nel quale sempre in modo originale combinare scienza,
divulgazione, cultura e medicina. Peripato vuole fare la sua parte facendo
cultura a 360 gradi e creando una diversa sensibilità alla Sanità nei cittadini
e negli operatori, con l'aiuto di chiunque abbia voglia di mettersi in gioco su
questi temi.
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