
Da parte mia nessun
commento moralistico, etico e religioso, solo informazione, riporto due aforismi e un invito a non aver paura della morte. La paura della morte infatti è più frequente tra i giovani che tra gli anziani. In uno studio sui malati terminali (Hinton, 1967) tra
i soggetti con età maggiore di 60 anni solo un terzo mostrava ansia
per la propria morte, mentre i due terzi del campione di individui con
età inferiore ai 50 anni mostrava reazioni di estrema angoscia per la propria morte.
Afferma Anna Oliverio Ferraris, psicologa e psicoterapeuta, alla domanda di una studentessa sulla paura della morte (clicca qui): In realtà tutte le paure originano da quella paura
fondamentale, dalla consapevolezza che noi siamo persone finite e che un
giorno moriremo. Questo è l'elemento irrisolvibile che crea tutte le
altre paure. La soluzione consiste nel rassegnarci all’idea di doverci
preparare a questo evento ultimo, accettando la propria condizione di
esseri che nascono e che muoiono. Dobbiamo proiettarci in un sistema più
vasto, perché noi facciamo parte del genere umano. Dovremmo mantenere
un pizzico di quel senso di onnipotenza che appartiene ai bambini nei
primi anni di vita. Un bambino pensa di non morire, pensa che muoiano
gli altri, poi, man mano, si rende conto che anche per lui la morte è
inevitabile.
Diceva Blaise Pascal: Gli uomini, non avendo nessun rimedio
contro la morte, la miseria e
l'ignoranza, hanno stabilito, per essere felici, di non pensarci mai.
John Donne: Ogni morte d'uomo mi diminuisce, perché
io partecipo all'umanità. E così non
mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona anche per
te.
Due parole sull'associazione Dignitas che ha aiutato Magri a morire: è una
Onlus svizzera che aiuta le persone con
malattie terminali e gravi malattie fisiche e mentali a morire,
assistite da
medici e infermieri qualificati. I costi che Dignitas richiede per un
suicidio
assistito sono: € 4.000 (3.182 £ / $
5,263.16) per la preparazione e l'assistenza al suicidio o € 7.000 (5.568 £ / $ 9,210.53) tutto compreso
( funerali, spese mediche e tasse).
Pur essendo una
organizzazione non-profit, Dignitas ha ripetutamente rifiutato di
publicizzare
i suoi bilanci.
Chi volesse acquisire ulteriori informazioni su Dignitas clicca qui
***********************************
Riporto cinque articoli sulla morte di Magri: il primo di
Simonetta Fiori apparso su Repubblica, il secondo di Fabrizio Caccia sul Corriere della Sera, il terzo di Gabrielle Villa sul Il Giornale, il quarto di Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano e il quinto di Paolo Flores d’Arcais ancora su Il Fatto Quotidiano.
Gli articoli di Travaglio contrario al gesto di Magri e di Flores d'Arcais favorevole, sono, a mio avviso, quelli che più ci interrogano e ci invitano a riflettere.
Gli articoli di Travaglio contrario al gesto di Magri e di Flores d'Arcais favorevole, sono, a mio avviso, quelli che più ci interrogano e ci invitano a riflettere.
LO STRAZIANTE “SUICIDIO ASSISTITO” DEL FONDATORE DEL "MANIFESTO" LUCIO MAGRI
mar,
nov 29, 2011
Simonetta
Fiori per “la Repubblica“
E alla fine la telefonata è arrivata.
Sì, tutto finito. Ora
si rientra in Italia. Alle pompe funebri aveva provveduto lo stesso
Lucio
Magri, poco prima di partire per la Svizzera. Era il suo ultimo viaggio,
così
voleva che fosse. Non ce la faceva a morire da solo, così il suo amico
medico
l´avrebbe aiutato. Là il suicidio assistito è una pratica lecita, anche
se poi
bisogna vedere nei dettagli, se ci sono proprio le condizioni. Ma ora
che importa?
Che volete sapere? Non fate troppi pettegolezzi, l´aveva già detto
qualcun
altro ma in questi casi non conta l´originalità.
S´era raccomandato con i suoi amici più
cari, quelli d´una
vita, i compagni del Manifesto. Non voglio funerali, per carità, tutte
quelle
inutili commemorazioni. Necrologi manco a parlarne. Luciana si occuperà
della
gestione editoriale dei miei scritti. Per gli amici e compagni lascio
una
lettera, ma dovete leggerla quando sarà tutto finito. Sì, ora è finito.
La
notizia può essere resa pubblica. Lucio Magri, fondatore del Manifesto,
protagonista della sinistra eretica, è morto in Svizzera all´età di 79
anni.
Morto per sua volontà, perché vivere gli era diventato intollerabile.
A casa di Lucio Magri, in attesa della
telefonata decisiva.
È tutto in ordine, in piazza del Grillo, nel cuore della Roma papalina e
misteriosa, a due passi dalla magione dove morì Guttuso, pittore
amatissimo ma
anche avversario sentimentale. Niente sembra fuori posto, il parquet
chiaro, i
divani bianchi, i libri sulla scrivania Impero, la collezione del
Manifesto
vicina a quella dei fascicoli di cucina, si sa che Lucio è un cuoco
raffinato.
Intorno al tavolo di legno chiaro siede
la sua famiglia
allargata, Famiano Crucianelli e Filippo Maone, amici sin dai tempi del
Manifesto, Luciana Castellina, compagna di sentimenti e di politica per
un
quarto di secolo. No, Valentino non c´è, Valentino Parlato lo stiamo
cercando,
ma presto ci raggiungerà. In cucina Lalla, la cameriera sudamericana,
prepara
il Martini con cura, il bicchiere giusto, quello a cono, con la scorza
di
limone. Cosa stiamo aspettando? Che qualcuno telefoni, e ci dica che
Lucio non
c´è più.
Da questa casa Magri s´è mosso venerdì
sera diretto in
Svizzera, dal suo amico medico. Non è la prima volta, l´aveva già fatto
una
volta, forse due. Però era sempre tornato, non convinto fino in fondo.
Ora però
è diverso. Domenica mattina rassicura gli amici: «Ma no, non
preoccupatevi,
torno domani». La sera il tono cambia, si fa più affannato,
indecifrabile,
chissà. Il lunedì mattina appare sereno, lucido, determinato. Ha scelto,
e
dunque il più è fatto. Bisogna solo decidere, e poi basta chiudere gli
occhi.
L´ultima telefonata nel pomeriggio, verso le sedici. Poi il silenzio.
Una depressione vera, incurabile. Un
lento scivolare nel
buio provocato da un intreccio di ragioni, pubbliche e private. Sul
fallimento
politico – conclamato, evidentissimo – s´era innestato il dolore privato
per la
perdita di una moglie molto amata, Mara, che era il suo filtro con il
mondo.
«Lucio non sapeva usare il bancomat né il cellulare», racconta una
giovane
amica.
Mara che oggi sorride dalle tante
fotografie sugli scaffali,
vestita color ciclamino nel giorno delle nozze. Un vuoto che Magri
riempie in
questi anni con le ricerche per il suo ultimo libro, una possibile
storia del
Pci che certo non a caso titola Il sarto di Ulm, il sarto di Brecht che
si
sfracella a terra perché non sa volare. Ucciso da un´ambizione troppo
grande,
così almeno appare ai suoi contemporanei.
Anche Magri voleva volare, voleva
cambiare il mondo, e il
mondo degli ultimi anni gli appariva un´insopportabile smentita della
sua
utopia, il segno intollerabile di un fallimento, la constatazione
amarissima
della separazione tra sé e la realtà. Così le ali ha deciso di
tagliarsele da
sé, ma evitando agli amici lo spettacolo del sangue sul selciato.
Aspettando l´ultima telefonata, a casa
Magri. Lalla, la
cameriera peruviana, va a fare la spesa per il pranzo, vi fermate vero a
colazione?
E´ affettuosa, Lalla, ha ricevuto tutte
le ultime
disposizioni dal padrone di casa. No, non ha bisogno di soldi per il
pranzo, ci
sono ancora quelli vecchi che lui le ha lasciato. È stata lei ad
assistere Mara
nei tre anni di agonia per il brutto tumore, e poi ha visto spegnersi
lui,
sempre più malinconico, quasi blindato in casa.
Ogni tanto qualche amico, compagno della
prima ora. Ma dai,
reagisci, che fai, ti lasci andare proprio ora? Ora che esce l´edizione
inglese
del tuo libro? E poi quella argentina, e quella spagnola? Dai,
ripensaci, c´è
ancora da fare. Ma lui non era convinto. Non poteva fare più nulla.
Lucido e
razionale, fino alla fine. E poi s´era spenta la sua stella, così scrive
anche
nell´ultima lettera ai compagni.
Sembra tutto surreale, qui in piazza del
Grillo, tra squilli
di telefono e porte che si aprono. Arriva Valentino, invecchiato
improvvisamente di dieci anni. Lo accolgono con calore. No, non sappiamo
ancora
niente. Aspettiamo. Ricordi privati e ricordi pubblici, lui grande
giocatore di
scacchi, lui grande sciatore, lui politico generoso che preparava i
documenti e
nascondeva la sua firma.
Ma attenzione a come ne scrivete, non
era un vanesio, non
era un mondano. Dalle fotografie sui ripiani occhieggia lui, bellissimo e
ancora giovane, un´espressione tra il malinconico e il maledetto. Dietro
la
foto più seducente, una dedica asciutta. «A Emma, il suo nonno». Neppure
Emma,
la bambina di sua figlia Jessica, è riuscito a fermarlo.
Poi la telefonata, quella che nessuno
avrebbe voluto mai
ricevere. Ora davvero è finita. Le pompe funebri andranno a prelevarlo
in
Svizzera, tutto era stato deciso nel dettaglio. L´ultimo viaggio, questo
sì
davvero l´ultimo, è verso Recanati, dove sarà seppellito vicino alla sua
Mara,
nella tomba che lui con cura aveva predisposto dopo la morte della
moglie.
Luciana Cartellina s´appoggia allo stipite della porta, tramortita: «Non
avrei
mai immaginato che finisse così». Il tempo dell´attesa è concluso,
comincia
quello del dolore
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Il
suicidio
assistito di Magri Polemiche tra laici e cattolici (dal Corriere della Sera.it)
La Binetti: scelta negativa. Welby: serve
rispetto
ROMA
- Mercoledì scorso per l' ultima volta Lucio Magri s' era affacciato a
Montecitorio e, incontrandoli in Transatlantico, aveva salutato così i
vecchi
amici della politica: «Ho deciso, vado in Svizzera, il mio tempo è
passato, non
ho più niente da rivendicare, grazie di tutto...». Inutili i tentativi
di
dissuaderlo. Sopraffatto dalla depressione e annichilito dalla morte
della sua
inseparabile compagna, Mara Caltagirone, stroncata da un tumore tre anni
fa,
Magri venerdì scorso ha fatto l'ultima scelta radicale della sua vita:
il
suicidio assistito. È partito da solo per Zurigo e due giorni fa, in una
clinica specializzata, il fondatore del il manifesto , l' eretico del
Pci e
leader storico della sinistra italiana, a 79 anni ha chiuso gli occhi
per
sempre. La sua salma, per problemi burocratici, arriverà forse solo
venerdì, o
addirittura sabato, al cimitero di Recanati, dove sarà sepolta nella
tomba che
lui stesso aveva fatto costruire per la moglie. Di sicuro, Lucio Magri
avrebbe
voluto andarsene in silenzio. «Niente pubblicità, niente funerali,
niente
necrologi. Vorrei evitare cerimonie pubbliche, rimembranze, etc...»,
aveva
lasciato scritto in una lettera all' amico Famiano Crucianelli. Ma la
sua scelta
inevitabilmente ora suscita qui da noi aspre polemiche, tra laici e
cattolici,
visto che in Italia l' eutanasia - la «dolce morte» - è vietata per
legge.
«Agghiacciante
e di cattivo esempio la pubblicità data al suicidio assistito di Magri,
oltretutto la depressione oggi viene curata con successo in milioni di
pazienti
nel mondo...», accusa Melania Rizzoli, deputata del Pdl. «La morte di
Magri è
un atto amaro ma non va associata ad una scelta di libertà - commenta
Eugenia
Roccella, ex sottosegretario alla Salute del governo Berlusconi -. Si
tratta
comunque di un suicidio, anche se assistito. Un gesto senza speranza».
Per
Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo del Pdl al Senato, «non è
possibile
pretendere che scelte personali, che ritengo in contrasto con il diritto
naturale, le compia lo Stato». Molto critica pure Paola Binetti,
parlamentare
dell' Udc: «Rispetto la persona e il mistero della libertà umana, ma mi
auguro
che questa scelta non diventi un modello». La radicale Antonietta Farina
Coscioni, invece, attacca: «Magri riteneva intollerabile vivere. Per
porre fine
al suo dolore, però, è dovuto emigrare in Svizzera, con un biglietto di
sola
andata. Questo perché viviamo in un Paese dove vige una regola ipocrita:
quella
del si fa ma non si deve dire ...». Per Mina Welby, la moglie di
Piergiorgio
Welby, «la scelta dell' individuo è l' unica cosa che conta, quindi
massimo
rispetto». E Beppino Englaro, il papà di Eluana, è perentorio: «Nessuno
può
entrare nella coscienza di una qualsiasi persona». «Ma non dividiamoci
ancora
tra pro vita e pro morte - è l' appello finale di Ignazio Marino,
senatore del
Pd - il tifo da stadio non è giustificabile di fronte alla fragilità
umana».
Fabrizio Caccia
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La clinica che guarisce dalla vita con
la morte
di
Gabriele Villa - 30 novembre 2011, 08:00
«Vivere
degnamente, morire degnamente». Parole sacrosante. Speranze lecite,
dettate dal
buon senso. Luci che dovrebbero illuminare il percorso di una vita
intera fino
alla più misteriosa e imperscrutabili delle
conclusioni. Ma se quelle parole diventano qualcosa di più di una
filosofia di
vita e di morte, diventano uno slogan, una promessa agghiacciante quanto
facilmente realizzabile? «Vivere degnamente, morire degnamente» è il
motto
attorno al quale si aggrovigliano i fili di mille vite piombate nel
baratro
nelle depressione, nella fine certa decretata da una malattia, nella
voglia di
farla finita senza un vero perch´. «Vivere degnamente, morire
degnamente» è il
biglietto da visita dell'associazione svizzera «Dignitas» fondata il 17
maggio
del 1998 a Forch, non lontano da Zurigo che, in collaborazione con
medici,
psicologi, psichiatri, associazioni simili di altri Paesi, e cliniche
specializzate, si propone di lavorare terapeuticamente per dissuadere
chi manifesti
volontà suicide ma anche di assecondare, con la pratica del suicidio
assistito,
chi, cittadino svizzero o no, sia fermamente determinato a togliersi la
vita.
Una singolare offerta quella proposta da «Dignitas» che ha fatto
diventare la
Svizzera il capolinea privilegiato da molti disperati. Ogni anno,
infatti,
circa 200 persone ricorrono alla morte assistita in Svizzera, dove il
suicidio
assistito è consentito dal 1941 a condizione che non sia legato ad alcun
motivo
egoistico ed è ammesso solo in modo passivo, cioè procurando ad una
persona i
mezzi per suicidarsi, ma non aiutandola a farlo. Un Paese, la Svizzera
dove
peraltro si registrano in media 1400 suicidi all'anno, pari al 2,2 per
cento
del totale dei decessi. Per la cronaca «Dignitas» ha assistito nel
suicidio un
totale di 1138 persone, (592 provenienti dalla Germania, 118 dalla
Svizzera,
102 dalla Francia, 18 dagli Stati Uniti, 19 dall'Italia e 16 dalla
Spagna.)
Secondo «Exit Italia» (l'associazione che dal 1996 lotta per vedere riconosciuto il diritto «a una morte dignitosa») sono almeno 30 gli italiani, malati di Sla, di cancro, di sclerosi multipla, ma anche di depressione, che nel 2011 si sono incamminati verso questa strada di non ritorno. Diciotto di questi sono stati dirottati alla clinica «Dignitas» di Zurigo. Ma, secondo quanto riferisce Emilio Coveri, presidente di Exit Italia: «Se Magri ha potuto accedere alla struttura è perchè la sua depressione era grave e conclamata. Non si va in Svizzera perché qualcuno ti suicidi se tu non ce la fai da solo, si va per un trattamento dignitoso e dietro copertura medica, solo e soltanto se puoi produrre una documentazione clinica che provi la gravità del tuo stato, sia esso fisico o psichiatrico». Secondo i dati in possesso di «Exit» a dimostrazione di ciò c'è il fatto che su mille richieste di suicidio 400 vengono rigettate dalla clinica perché mancano i requisiti. Una volta deciso che si può fare, i medici forniscono un composto chimico con un barbiturico e un potentissimo sonnifero, dopo aver somministrato due pastiglie di antiemetico. «In 5 minuti, senza dolore, arriva l'arresto cardiaco. Ma se il paziente non riesce a bere da solo il composto, se ha paura, se vuole essere aiutato, i medici - precisa Coveri - sono inflessibili: meglio tornare in Italia. Loro non uccidono per conto dell'aspirante suicida. Il tutto a un costo di non più di 3.000 euro».
In ogni caso associazioni come «Exit», in Svizzera non sono punibili a meno che non sia possibile contestare loro motivi egoistici. Sulla scia di questa «disponibilità» il 15 maggio scorso il diritto al suicidio assistito è stato confermato anche ai non residenti in Svizzera.
Il medico salva, non uccide – di Marco Travaglio
Io non voglio parlare di Lucio Magri, che non ho conosciuto e non mi sognerei mai di giudicare: non so come mi comporterei se cadessi nella cupa depressione in cui l’avevano precipitato la vecchiaia, il fallimento politico e la morte della moglie. So soltanto che non organizzerei una festicciola fra i miei amici a casa mia, con tanto di domestica sudamericana che prepara il rinfresco per addolcire l’attesa della telefonata dalla clinica svizzera che annuncia la mia dipartita. Una scena che personalmente trovo più volgare e urtante di quella del pubblico che assiste alle esecuzioni nella camera della morte dei penitenziari. Ma qui mi fermo, perché vorrei spersonalizzare il gesto di Magri, quello che viene chiamato con orrenda ipocrisia “suicidio assistito” e invece va chiamato col suo vero nome: “Omicidio del consenziente”. Ne vorrei parlare perché è diventato un fatto pubblico e tutti ne discutono e ne scrivono. E molti tirano in ballo l’eutanasia, Monicelli o Eluana Englaro, che non c’entrano nulla perché Magri non era un malato terminale, né tantomeno in coma vegetativo irreversibile tenuto artificialmente in vita da una macchina: era fisicamente sano e integro, anche se depresso. Altri addirittura considerano il “suicidio assistito” un “diritto” da importare quanto prima in Italia per non costringere all’ “esilio” chi vuole farsi ammazzare da un medico perché non ha il coraggio di farlo da solo. Sulla vita e sulla morte, da credente, ho le mie convinzioni, ma me le tengo per me perché, da laico, non reputo giusto imporle per legge a chi ha una fede diversa o non ce l’ha. Dunque vorrei parlarne dai soli punti di vista che ci accomunano tutti: quello logico, quello giuridico, quello deontologico e quello pratico.
Dal punto di vista logico, non si scappa: chi sostiene il diritto al “suicidio assistito” afferma che ciascuno di noi è il solo padrone della sua vita. Ammettiamo pure che sia così: ma proprio per questo chi vuole sopprimere la “sua” vita deve farlo da solo; se ne incarica un altro, la vita non è più sua, ma di quell’altro. Dunque, se vuole farla finita, deve pensarci da sé.
Dal punto di vista giuridico c’è una barriera insormontabile: l’articolo 575 del Codice penale, che punisce con la reclusione da 21 anni all’ergastolo “chiunque cagiona la morte di un uomo”. Sono previste attenuanti, ma non eccezioni: nessuno può sopprimere la vita di un altro, punto. Se lo fa volontariamente, commette omicidio volontario. Anche se la vittima era consenziente, o l’ha pregato di farlo, o addirittura l’ha pagato per farlo. Non è che sia “trattato da criminale”: “È” un criminale. Ed è giusto che sia così. Se si comincia a prevedere qualche eccezione, si sa dove si inizia e non si sa dove si finisce. Se si autorizza un medico a sopprimere la vita di un innocente, come si fa a non autorizzare il boia a giustiziare un folle serial killer che magari è già riuscito ad ammazzare pure qualche compagno di cella?
Dal punto di vista deontologico, altro muro invalicabile: il “giuramento di Ippocrate” che ogni medico, odontoiatra e persino veterinario deve prestare prima di iniziare la professione: “Giuro di… perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale , ogni mio atto professionale; di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno…; di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione”. Non occorre aggiungere altro. Come si può chiedere a un medico di togliere la vita al suo paziente, cioè di ribaltare di 180 gradi il suo dovere professionale di salvarla sempre e comunque? Sarebbe molto meno grave se chi vuole suicidarsi, ma non se la sente di farlo da solo, assoldasse un killer professionista per farsi sparare a distanza quando meno se l’aspetta: almeno il killer, per mestiere, ammazza la gente; il medico, per mestiere, deve salvarla. Se ti aiuta ad ammazzarti è un boia, non un medico.
Dal punto di vista pratico, gli impedimenti alla legalizzazione del “suicidio assistito” sono infiniti. Che si fa? Si va dal medico e gli si chiede un’iniezione letale perché si è stanchi di vivere? O si prevede un elenco di patologie che lo consentono? E quali sarebbero queste patologie? Quasi nessuna patologia, grazie ai progressi della scienza medica, è di per sé irreversibile. Nemmeno la depressione. Ma proprio una patologia passeggera può obnubilare il libero arbitrio della persona che, una volta guarita, non chiederebbe mai di essere “suicidata”. Qui di irreversibile c’è solo il “suicidio assistito”: ti impedisce di curarti e guarire, dunque di decidere consapevolmente, cioè liberamente, della tua vita. E se poi un medico o un infermiere senza scrupoli provvedono all’iniezione letale senza un’esplicita richiesta scritta, ma dicendo che il paziente, prima di cadere in stato momentaneo di incoscienza e dunque impossibilitato a scrivere, aveva espresso la richiesta oralmente? E se un parente ansioso di ereditare comunica al medico che l’infermo, prima di cadere in stato temporaneo di incoscienza, aveva chiesto di farla finita?
Se incontriamo per strada un tizio che sta per buttarsi nel fiume, che facciamo: lo spingiamo o lo tratteniamo cercando di farlo ragionare? Voglio sperare che l’istinto naturale di tutti noi sia quello di salvarlo. Un attimo di debolezza o disperazione può capitare a tutti, ma se in quel frangente c’è qualcuno che ti aiuta a superarlo, magari ti salvi. Del resto, il numero dei suicidi è indice dell’infelicità, non della “libertà” di un Paese. E, quando i suicidi sono troppi, il compito della politica e della cultura è di interrogarsi sulle cause e di trovare i rimedi. Che senso ha allora esaltare il diritto al suicidio ed escogitare norme che lo facilitino? Il suicidio passato dal Servizio Sanitario Nazionale: ma siamo diventati tutti matti?
Se la tua vita non appartiene a te, amico lettore, ne sarà padrone un altro essere umano, finito e fallibile non meno di te. Ti sembra accettabile? Su questa terra infatti si agitano e scontrano solo e sempre volontà umane, una volontà anonima e superiore che si imponga a tutti, oggettivamente o intersoggettivamente, è introvabile. Chi ciancia della volontà di Dio è blasfemo (come può pensare di conoscere ciò che è incommensurabile con la piccolezza umana?). In realtà attribuisce a Dio la propria volontà, lucrando sulla circostanza che nessun Dio potrà querelarlo per diffamazione. Il Dio cattolico di Küng considera lecita l’eutanasia, il Dio altrettanto cattolico di Ratzinger l’equipara all’omicidio. Perché in realtà si tratta dell’opinione di Küng e dell’opinione di Ratzinger, umanissime entrambe e non più autorevoli della tua. Perciò, rispetto alla tua vita, o il padrone sei tu o il padrone è un altro “homo sapiens”, eguale a te in dignità (così Kant, e ogni democrazia anche minima), vescovo, primario ospedaliero, pater familias o altra “autorità” che sia.
Ma poiché siamo tutti eguali, deve anche valere il reciproco: se il padrone della tua vita può essere qualcun altro, tu potrai a tua volta decidere della sua vita contro la sua volontà. Se c’è davvero qualcuno che accetterebbe si faccia avanti. Ma non ce n’è nessuno. Nella realtà esistono solo “homo sapiens” finiti, fallibili e peccatori come te e come me, amico lettore, che pretendono di imporre alle altrui vite la loro personale volontà, ma mai accetterebbero di essere soggetti ad analoga mostruosa prevaricazione.
Perciò, senza perifrasi: il suicidio assistito è un diritto? Sì. Fa tutt’uno col diritto alla vita e alla libertà, inscindibili. La “Vita” che qualcuno vuole “sacra” è infatti la vita umana, non il “bios” in generale (ogni volta che prendiamo un antibiotico, come dice la parola, facciamo strage di “vita”), e la vita umana è tale perché singolare e irripetibile, cioè assolutamente MIA. Se non più mia, ma a disposizione di volontà altrui, è già degradata a cosa: “Instrumentum vocale”, dicevano giustamente gli antichi.
Per Lucio Magri la vita era ormai solo tortura. Per Mario Monicelli la vita era ormai solo tortura. Per porvi fine, Lucio Magri ha dovuto andare in esilio e Mario Monicelli gettarsi dal quinto piano. La legge italiana vieta infatti una fine che non aggiunga dolore al dolore già insopportabile: su chi ti aiuta incombe una condanna fino a 12 anni di carcere. E per “assistenza” al suicidio si intende anche quella semplicemente morale! Due casi raccapriccianti di anni recenti: un coniuge accompagna l’altro nell’ultimo viaggio (solo questo: la vicinanza) e deve patteggiare una pena di oltre due anni, altrimenti la sentenza sarebbe stata assai più pesante. Una signora di 54 anni, affetta da paralisi progressiva, decide di andare da sola in Svizzera, proprio per non coinvolgere la figlia. Che tuttavia le prenota il taxi per disabili che la porterà oltre frontiera. È bastato per l’incriminazione: ha dovuto patteggiare un anno e mezzo di carcere.
Ma quando si vuole porre fine alla tortura che ormai ha saturato la propria esistenza, si ha sempre bisogno di assistenza: il pentobarbital sodium non si trova dal droghiere, solo un medico lo può procurare. L’alternativa è appunto l’esilio o lo strazio estremo dell’angoscia aggiuntiva: gettarsi sotto un treno o nel vuoto o nella morte per acqua. Le anime “virili” che si sono concessi perfino l’ironia (“se uno vuol farla finita ha mille modi, senza piagnistei di ‘aiuto’”: i blog ne sono pieni), hanno davvero oltrepassato la soglia del vomitevole.
Altre obiezioni grondano comunque ipocrisia o illogicità. “Se vedi uno che si sta impiccando che fai, rispetti la sua libertà o intanto lo salvi?”. Ovvio che lo salvo, poiché potrebbe essere un momento di sconforto. Ma i casi di cui parliamo sono sempre e solo riferiti a scelte lungamente maturate, ponderate, ribadite. Lucidamente e incrollabilmente definitive (a maggior ragione se chi vuole morire subito è un malato terminale comunque condannato a morte). Da rispettare, dunque, se a una persona si vuole bene davvero: anche se la fine della sua tortura ci procura il dolore della sua assenza per sempre.
Altrettanto pretestuosa l’accusa che il medico verrebbe costretto a praticare l’eutanasia a chiunque la chieda. Nessuno ha mai avanzato questa richiesta, ma solo il diritto – per il medico che questo aiuto vuole dare – di non rischiare il carcere come un criminale. Spiace perciò particolarmente che Ignazio Marino, clinico e cittadino dai molti meriti, abbia dichiarato: “Non dividiamoci tra ‘pro vita’ e ‘pro morte’, il tifo da stadio non è giustificabile di fronte alla fragilità umana”.
A parte la scurrilità del “tifo da stadio”: essere “pro choice” non è essere “pro morte” ma per la libertà di ciascuno di decidere liberamente, mentre troppi “pro vita” sono semplicemente “pro tortura”, poiché pretendono di imporla a chi invece la vive come peggiore della morte. Tu hai tutto il diritto di dire che mai e poi mai ricorrerai al suicidio assistito, che la sola idea ti fa orrore. Ma che diritto hai di imporre questo rifiuto a me, cui fa più orrore la tortura, visto che siamo cittadini eguali in dignità e libertà?
Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2011
Secondo «Exit Italia» (l'associazione che dal 1996 lotta per vedere riconosciuto il diritto «a una morte dignitosa») sono almeno 30 gli italiani, malati di Sla, di cancro, di sclerosi multipla, ma anche di depressione, che nel 2011 si sono incamminati verso questa strada di non ritorno. Diciotto di questi sono stati dirottati alla clinica «Dignitas» di Zurigo. Ma, secondo quanto riferisce Emilio Coveri, presidente di Exit Italia: «Se Magri ha potuto accedere alla struttura è perchè la sua depressione era grave e conclamata. Non si va in Svizzera perché qualcuno ti suicidi se tu non ce la fai da solo, si va per un trattamento dignitoso e dietro copertura medica, solo e soltanto se puoi produrre una documentazione clinica che provi la gravità del tuo stato, sia esso fisico o psichiatrico». Secondo i dati in possesso di «Exit» a dimostrazione di ciò c'è il fatto che su mille richieste di suicidio 400 vengono rigettate dalla clinica perché mancano i requisiti. Una volta deciso che si può fare, i medici forniscono un composto chimico con un barbiturico e un potentissimo sonnifero, dopo aver somministrato due pastiglie di antiemetico. «In 5 minuti, senza dolore, arriva l'arresto cardiaco. Ma se il paziente non riesce a bere da solo il composto, se ha paura, se vuole essere aiutato, i medici - precisa Coveri - sono inflessibili: meglio tornare in Italia. Loro non uccidono per conto dell'aspirante suicida. Il tutto a un costo di non più di 3.000 euro».
In ogni caso associazioni come «Exit», in Svizzera non sono punibili a meno che non sia possibile contestare loro motivi egoistici. Sulla scia di questa «disponibilità» il 15 maggio scorso il diritto al suicidio assistito è stato confermato anche ai non residenti in Svizzera.
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Il diritto di vivere. E anche di morire? (Il Fatto Quotidiano)
Tre giorni fa la morte “pianificata” di Lucio Magri in una clinica
svizzera. Oggi sul nostro giornale si confrontano due punti di vista
opposti. Quello di Marco Travaglio: “Il medico salva, non uccide”. E
quello di Paolo Flores d’Arcais: “Liberi di vivere e morire”. Decidere
della propria vita significa anche poter delegare la propria fine ad
altre persone? Ecco le opinioni dei due editorialisti.Il medico salva, non uccide – di Marco Travaglio
Io non voglio parlare di Lucio Magri, che non ho conosciuto e non mi sognerei mai di giudicare: non so come mi comporterei se cadessi nella cupa depressione in cui l’avevano precipitato la vecchiaia, il fallimento politico e la morte della moglie. So soltanto che non organizzerei una festicciola fra i miei amici a casa mia, con tanto di domestica sudamericana che prepara il rinfresco per addolcire l’attesa della telefonata dalla clinica svizzera che annuncia la mia dipartita. Una scena che personalmente trovo più volgare e urtante di quella del pubblico che assiste alle esecuzioni nella camera della morte dei penitenziari. Ma qui mi fermo, perché vorrei spersonalizzare il gesto di Magri, quello che viene chiamato con orrenda ipocrisia “suicidio assistito” e invece va chiamato col suo vero nome: “Omicidio del consenziente”. Ne vorrei parlare perché è diventato un fatto pubblico e tutti ne discutono e ne scrivono. E molti tirano in ballo l’eutanasia, Monicelli o Eluana Englaro, che non c’entrano nulla perché Magri non era un malato terminale, né tantomeno in coma vegetativo irreversibile tenuto artificialmente in vita da una macchina: era fisicamente sano e integro, anche se depresso. Altri addirittura considerano il “suicidio assistito” un “diritto” da importare quanto prima in Italia per non costringere all’ “esilio” chi vuole farsi ammazzare da un medico perché non ha il coraggio di farlo da solo. Sulla vita e sulla morte, da credente, ho le mie convinzioni, ma me le tengo per me perché, da laico, non reputo giusto imporle per legge a chi ha una fede diversa o non ce l’ha. Dunque vorrei parlarne dai soli punti di vista che ci accomunano tutti: quello logico, quello giuridico, quello deontologico e quello pratico.
Dal punto di vista logico, non si scappa: chi sostiene il diritto al “suicidio assistito” afferma che ciascuno di noi è il solo padrone della sua vita. Ammettiamo pure che sia così: ma proprio per questo chi vuole sopprimere la “sua” vita deve farlo da solo; se ne incarica un altro, la vita non è più sua, ma di quell’altro. Dunque, se vuole farla finita, deve pensarci da sé.
Dal punto di vista giuridico c’è una barriera insormontabile: l’articolo 575 del Codice penale, che punisce con la reclusione da 21 anni all’ergastolo “chiunque cagiona la morte di un uomo”. Sono previste attenuanti, ma non eccezioni: nessuno può sopprimere la vita di un altro, punto. Se lo fa volontariamente, commette omicidio volontario. Anche se la vittima era consenziente, o l’ha pregato di farlo, o addirittura l’ha pagato per farlo. Non è che sia “trattato da criminale”: “È” un criminale. Ed è giusto che sia così. Se si comincia a prevedere qualche eccezione, si sa dove si inizia e non si sa dove si finisce. Se si autorizza un medico a sopprimere la vita di un innocente, come si fa a non autorizzare il boia a giustiziare un folle serial killer che magari è già riuscito ad ammazzare pure qualche compagno di cella?
Dal punto di vista deontologico, altro muro invalicabile: il “giuramento di Ippocrate” che ogni medico, odontoiatra e persino veterinario deve prestare prima di iniziare la professione: “Giuro di… perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale , ogni mio atto professionale; di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno…; di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione”. Non occorre aggiungere altro. Come si può chiedere a un medico di togliere la vita al suo paziente, cioè di ribaltare di 180 gradi il suo dovere professionale di salvarla sempre e comunque? Sarebbe molto meno grave se chi vuole suicidarsi, ma non se la sente di farlo da solo, assoldasse un killer professionista per farsi sparare a distanza quando meno se l’aspetta: almeno il killer, per mestiere, ammazza la gente; il medico, per mestiere, deve salvarla. Se ti aiuta ad ammazzarti è un boia, non un medico.
Dal punto di vista pratico, gli impedimenti alla legalizzazione del “suicidio assistito” sono infiniti. Che si fa? Si va dal medico e gli si chiede un’iniezione letale perché si è stanchi di vivere? O si prevede un elenco di patologie che lo consentono? E quali sarebbero queste patologie? Quasi nessuna patologia, grazie ai progressi della scienza medica, è di per sé irreversibile. Nemmeno la depressione. Ma proprio una patologia passeggera può obnubilare il libero arbitrio della persona che, una volta guarita, non chiederebbe mai di essere “suicidata”. Qui di irreversibile c’è solo il “suicidio assistito”: ti impedisce di curarti e guarire, dunque di decidere consapevolmente, cioè liberamente, della tua vita. E se poi un medico o un infermiere senza scrupoli provvedono all’iniezione letale senza un’esplicita richiesta scritta, ma dicendo che il paziente, prima di cadere in stato momentaneo di incoscienza e dunque impossibilitato a scrivere, aveva espresso la richiesta oralmente? E se un parente ansioso di ereditare comunica al medico che l’infermo, prima di cadere in stato temporaneo di incoscienza, aveva chiesto di farla finita?
Se incontriamo per strada un tizio che sta per buttarsi nel fiume, che facciamo: lo spingiamo o lo tratteniamo cercando di farlo ragionare? Voglio sperare che l’istinto naturale di tutti noi sia quello di salvarlo. Un attimo di debolezza o disperazione può capitare a tutti, ma se in quel frangente c’è qualcuno che ti aiuta a superarlo, magari ti salvi. Del resto, il numero dei suicidi è indice dell’infelicità, non della “libertà” di un Paese. E, quando i suicidi sono troppi, il compito della politica e della cultura è di interrogarsi sulle cause e di trovare i rimedi. Che senso ha allora esaltare il diritto al suicidio ed escogitare norme che lo facilitino? Il suicidio passato dal Servizio Sanitario Nazionale: ma siamo diventati tutti matti?
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Io “tifo” per la libertà – di Paolo Flores d’ArcaisSe la tua vita non appartiene a te, amico lettore, ne sarà padrone un altro essere umano, finito e fallibile non meno di te. Ti sembra accettabile? Su questa terra infatti si agitano e scontrano solo e sempre volontà umane, una volontà anonima e superiore che si imponga a tutti, oggettivamente o intersoggettivamente, è introvabile. Chi ciancia della volontà di Dio è blasfemo (come può pensare di conoscere ciò che è incommensurabile con la piccolezza umana?). In realtà attribuisce a Dio la propria volontà, lucrando sulla circostanza che nessun Dio potrà querelarlo per diffamazione. Il Dio cattolico di Küng considera lecita l’eutanasia, il Dio altrettanto cattolico di Ratzinger l’equipara all’omicidio. Perché in realtà si tratta dell’opinione di Küng e dell’opinione di Ratzinger, umanissime entrambe e non più autorevoli della tua. Perciò, rispetto alla tua vita, o il padrone sei tu o il padrone è un altro “homo sapiens”, eguale a te in dignità (così Kant, e ogni democrazia anche minima), vescovo, primario ospedaliero, pater familias o altra “autorità” che sia.
Ma poiché siamo tutti eguali, deve anche valere il reciproco: se il padrone della tua vita può essere qualcun altro, tu potrai a tua volta decidere della sua vita contro la sua volontà. Se c’è davvero qualcuno che accetterebbe si faccia avanti. Ma non ce n’è nessuno. Nella realtà esistono solo “homo sapiens” finiti, fallibili e peccatori come te e come me, amico lettore, che pretendono di imporre alle altrui vite la loro personale volontà, ma mai accetterebbero di essere soggetti ad analoga mostruosa prevaricazione.
Perciò, senza perifrasi: il suicidio assistito è un diritto? Sì. Fa tutt’uno col diritto alla vita e alla libertà, inscindibili. La “Vita” che qualcuno vuole “sacra” è infatti la vita umana, non il “bios” in generale (ogni volta che prendiamo un antibiotico, come dice la parola, facciamo strage di “vita”), e la vita umana è tale perché singolare e irripetibile, cioè assolutamente MIA. Se non più mia, ma a disposizione di volontà altrui, è già degradata a cosa: “Instrumentum vocale”, dicevano giustamente gli antichi.
Per Lucio Magri la vita era ormai solo tortura. Per Mario Monicelli la vita era ormai solo tortura. Per porvi fine, Lucio Magri ha dovuto andare in esilio e Mario Monicelli gettarsi dal quinto piano. La legge italiana vieta infatti una fine che non aggiunga dolore al dolore già insopportabile: su chi ti aiuta incombe una condanna fino a 12 anni di carcere. E per “assistenza” al suicidio si intende anche quella semplicemente morale! Due casi raccapriccianti di anni recenti: un coniuge accompagna l’altro nell’ultimo viaggio (solo questo: la vicinanza) e deve patteggiare una pena di oltre due anni, altrimenti la sentenza sarebbe stata assai più pesante. Una signora di 54 anni, affetta da paralisi progressiva, decide di andare da sola in Svizzera, proprio per non coinvolgere la figlia. Che tuttavia le prenota il taxi per disabili che la porterà oltre frontiera. È bastato per l’incriminazione: ha dovuto patteggiare un anno e mezzo di carcere.
Ma quando si vuole porre fine alla tortura che ormai ha saturato la propria esistenza, si ha sempre bisogno di assistenza: il pentobarbital sodium non si trova dal droghiere, solo un medico lo può procurare. L’alternativa è appunto l’esilio o lo strazio estremo dell’angoscia aggiuntiva: gettarsi sotto un treno o nel vuoto o nella morte per acqua. Le anime “virili” che si sono concessi perfino l’ironia (“se uno vuol farla finita ha mille modi, senza piagnistei di ‘aiuto’”: i blog ne sono pieni), hanno davvero oltrepassato la soglia del vomitevole.
Altre obiezioni grondano comunque ipocrisia o illogicità. “Se vedi uno che si sta impiccando che fai, rispetti la sua libertà o intanto lo salvi?”. Ovvio che lo salvo, poiché potrebbe essere un momento di sconforto. Ma i casi di cui parliamo sono sempre e solo riferiti a scelte lungamente maturate, ponderate, ribadite. Lucidamente e incrollabilmente definitive (a maggior ragione se chi vuole morire subito è un malato terminale comunque condannato a morte). Da rispettare, dunque, se a una persona si vuole bene davvero: anche se la fine della sua tortura ci procura il dolore della sua assenza per sempre.
Altrettanto pretestuosa l’accusa che il medico verrebbe costretto a praticare l’eutanasia a chiunque la chieda. Nessuno ha mai avanzato questa richiesta, ma solo il diritto – per il medico che questo aiuto vuole dare – di non rischiare il carcere come un criminale. Spiace perciò particolarmente che Ignazio Marino, clinico e cittadino dai molti meriti, abbia dichiarato: “Non dividiamoci tra ‘pro vita’ e ‘pro morte’, il tifo da stadio non è giustificabile di fronte alla fragilità umana”.
A parte la scurrilità del “tifo da stadio”: essere “pro choice” non è essere “pro morte” ma per la libertà di ciascuno di decidere liberamente, mentre troppi “pro vita” sono semplicemente “pro tortura”, poiché pretendono di imporla a chi invece la vive come peggiore della morte. Tu hai tutto il diritto di dire che mai e poi mai ricorrerai al suicidio assistito, che la sola idea ti fa orrore. Ma che diritto hai di imporre questo rifiuto a me, cui fa più orrore la tortura, visto che siamo cittadini eguali in dignità e libertà?
Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2011
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