Ho
visto questa sera su Rai Movie il cancer movie "L'ultimo
sogno", un
film di Irwin Winkler del 2001 con Kristin Scott Thomas, Kevin Kline, Hayden
Christensen, Jena Malone, Mary Steenburgen. Titolo originale "Life
as a House". Invece di guardare Italialand di Maurizio Crozza sulla 7, ho visto con piacere questo film. Non concordo con la recenzione che lo definisce: "scivola nel melodramma edificante e
strappalacrime". Un anno fa non l'avrei guardato, è segno di senectus?
Trovo su MyMovies.it questa recenzione negativa che è stata approvata dal 15% e respinta dall'85% del pubblico:
Trovo su MyMovies.it questa recenzione negativa che è stata approvata dal 15% e respinta dall'85% del pubblico:
Eccentrico
architetto, californiano e cinquantenne, in cattivi rapporti con sé
stesso e
col prossimo, apprende di avere un tumore incurabile e pochi mesi di
vita.
Decide di passarli costruendo una casa di sua ideazione a picco sul
Pacifico e
costringendo il figlio punk e ribelle ad aiutarlo. Prima di morire,
riconquista
affetto e stima di tutti, ex moglie compresa. Scritto con melensaggine
consolatoria da Markus Andrus, è un cancer movie che, dopo una 1ª parte
non
priva di artificiosa vivacità, scivola nel melodramma edificante e
strappalacrime al servizio di Kline, fin troppo impegnato nel dimostrare
la sua
bravura sul registro patetico. L'unico personaggio interessante è la
moglie.
Ecco
il commento contrario alla recenzione, di martedì
16 giugno 2009, di Maria
Chiara, una ragazza di 23 anni.
Trovo
che la recensione che và ad apertura di questo film sia un insulto a
quel che è
in realtà il film, sono una ragazza di venti tre anni, e probabilmente
io non
ne capisco niente di critiche eccelse e di persone che vengono pagate
per
esprimere giudizi che poi possono corrispondere alla visione nazional
popolare
o meno di questo film, noto con piacere che il voto a cui io stessa ho
partecipato "sei d'accordo con questa recensione?" Ad oggi segna un
bellissimo 88% di no. Questo riempie il mio cuore di gioia e spero possa
diventare un ancora più bello "100%". Io trovo che questo film non
vada solo visto con gli occhi e registrato con il cervello, io credo che
questo
film vada percepito con l'anima. Ci sono parti così profonde in cui
ognuno di
noi si è immedesimato, chi più chi meno volte e trovo che parlare di
vita come
hanno parlato Loro sia un insulto alle persone che come me si sono
emozionate e
riviste nei vari personaggi. l'unica decente è l'ex moglie? (...)
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Nel sito "Cinema e Psicoanalisi", Ignazio
Senatore riporta alcune frasi del suo interessante libro "Cinema Mente e Corpo" dal titolo: Dolore, lacrime e sospensione del tempo;
il cinema e
le malattie oncologiche
1. Introduzione
(...) Quando
c'imbattiamo nelle pellicole la cui narrazione si snoda intorno al tema
della
malattia terminale, questo seriale e perfetto statuto narrativo è in
qualche
modo scardinato e stravolto perché terminano con l'inevitabile e
drammatica
morte del protagonista della vicenda. Scopo di questa relazione sarà
quello di
mostrare come la "fabbrica dei sogni" ha mostrato sullo schermo le
varie fasi della malattia oncologica; dalla scoperta della malattia,
alla
rivelazione al paziente, all'exitus finale.
2. La comunicazione della malattia
Come avviene
nella vita reale, al cinema la scoperta del "male incurabile" avviene
quasi sempre per caso e la "rivelazione" della malattia piomba sul
protagonista della vicenda, come un fulmine a ciel sereno. Il cinema
predilige
di mostrare questo momento altamente emotivo, con sfumature diverse.
Nella
quasi totalità dei casi tocca al medico assumersi la responsabilità di
una così
delicata comunicazione. In "Nemiche amiche" la dottoressa si
rivolgerà alla paziente e le dirà (...) Nello stesso film, la dottoressa
si
adopererà ad informare, in maniera dettagliata, la paziente sugli
effetti
collaterali associati alla cura farmacologica: (...) In "Voglia di
tenerezza" il dottore cercherà, inizialmente, di rassicurare la
paziente:
Dottore: Lei ha
nodulo sotto l'ascella, anzi ne ha due…Bisognerebbe toglierli ed
esaminarli…
Emma:
Ma io sono spaventata…
Dottore: Se lei
si spaventa, vorrà dire che sarà molto più felice quando saprà che non
avrà più
niente…
Da questi brevi
frammenti riportati, appare evidente come a differenza di altri
operatori
impegnati nella salute mentale (basti pensare alla svalutante immagine
degli
psicoterapeuti proposta del mondo della celluloide) la figura
dell'oncologo
venga rappresentata in positivo.
(*) I medici
appaiono tutti "comprensivi", dotati di alta umanità, capaci di
contenere la sofferenza del paziente ed in grado di infondergli speranza
e
sicurezza. In tutte queste pellicole l'oncologo viene mostrato come un
eroe
tragico, "costretto", suo malgrado, a dover comunicare, in maniera
secca e decisa, alle sue pazienti la gravità della diagnosi.
(**) Nel film
"Voglia di tenerezza", il dottore si limiterà a dire alla paziente:
Dottore: Emma si
è rilevato maligno
Emma:
Me lo ripete?
Dottore.
Maligno
Altre pellicole,
la cui trama narrativa si snoda sempre a partire da una malattia
"incurabile", mostrano anche altre figure professionali protettive ed
accoglienti. Ne "La voce dell'amore", una sensibile infermiera non
mancherà di offrire dei suggerimenti alla paziente: (...) In altri film,
la
figura del medico è sullo sfondo o non compare affatto; in questi casi
sarà lo
stesso ammalato che avrà il "coraggio" di confessare alla persona
cara il proprio male. In "Anonimo veneziano" l'uomo comunicherà così
alla sua ex amata il suo ineludibile destino (...)
3. Le reazioni del paziente
Per non
appesantire troppo il clima "mortifero" della stessa pellicola, i
registi tendono a glissare e a scotomizzare le reazioni emotive dei
pazienti.
In "Love story", la protagonista femminile si rivolge al marito e gli
dirà: (...)
4. L'exitus
Nonostante il
regista provi, come ad allentare la tensione procurata dall'imminente
morte
della protagonista, nella maggioranza dei film, lo spettatore assiste
impotente
alla lenta agonia della protagonista E quando si tratta di filmare gli
ultimi
momenti della vita del personaggio della vicenda, il regista opera
generalmente
una sorta di scotomizzazione della morte stessa, limitandosi a
"narrare" (spesso con l'ausilio di una voce fuori campo o mediante il
commento di uno dei protagonisti della vicenda) ed a "filtrare"
l'avvenuto exitus della paziente. Di fronte ad un destino così crudele, i
registi sembrano quindi di suggerirci che non c'è spazio né per le
immagini, né
per le parole. Altre volte (come accade in "Nick's movie - Lampi
sull'acqua", "My life", "La voce dell'amore", "La
stanza di Marvin", "Sussurri e grida", "Man on the
moon", "Magnolia"…) la macchina da presa, "senza alcuna
pietà", "indugia", " scava", "spoglia" le
carni del protagonista della vicenda, fino a mostrarne la disgregrazione
del
corpo, la sua inesorabile e "mostruosa trasformazione".
(***) Nel film
"Scelta d'amore" (il cui titolo originale non a caso è "Dyning
young"- "Il giovane morente") il regista mostra
"addirittura" e "senza pietà" gli effetti collaterali dei
farmaci chemioterapici, riprendendo il protagonista mentre vomita,
trema, suda
e si contorce dal dolore. In "Anonimo veneziano" il regista mostra
l'inesorabile "declino" del protagonista, filmandolo quando assume la
terapia orale ed intramuscolare e quando si poggia la mano sulla nuca,
quasi
per oggettivare il male incurabile che lo affligge.
5. Un segnale di speranza…
Non sempre il
cinema rappresenta il cancro come una malattia “incurabile”.
Nell'indimenticabile film di Agnes Varda, "Cleo dalla 5 alle 7", la
protagonista (Cleò) si aggira per Parigi mentre attende l'esito di un
esame
radiologico. Nel suo girovagare per Parigi, in attesa dell'esito delle
analisi,
incontra in un parco un soldato che tenta di abbordarla… (...)
Medico: Il
trattamento la stancherà un po', ma poi con un paio di mesi di raggi,
guarirà.
Cleò:
Mi sembra di non aver più paura, mi sembra di essere felice
6. Le cifre stilistiche
Tra i vari
generi cinematografici il melò è certamente uno dei codici iconografici e
narrativi di sicuro successo. Volendo schematizzare potremo affermare
che tale
"genere" fa appello a dei sentimenti "popolari" e gioca sul
contrasto spesso irriducibile tra la vita e la morte. Da tale premessa
ne
discende che in questi film i registi, attratti dall'incasso del
botteghino,
hanno spesso inondato le trame con artifici stilistici di sicuro
effetto.
Come ricordano
Orio Caldiron e Stefano della Casa (3):
"Ne
"L'ultima neve di primavera" il bambino prima di morire vuole fare un
ultimo giro sulla giostra. In questa scena l'utilizzo della musica ad
effetto è il più evidente dei dispositivi emozionali attivati, ma
"funziona" soprattutto in relazione al senso di vuoto e di morte che
promana dal Luna Park deserto e dall'imprevista accensione di luci che
si fa
espressione cosmica della tragedia di una giovane vita che si spegne."
In "Anonimo
veneziano", ad esempio, per amplificare ulteriormente la tensione
drammatica, il regista utilizza un'alternanza di scene dal contenuto
drammatico
e di flash-back gioiosi che rimandano all'amore tra i due protagonisti.
Al di
là di alcune cifre stilistiche care al cinema "strappalacrime" e di
maniera (l'uso massiccio dei primi piani del protagonista, il rallenty e
i flash
back…) i registi fanno appello ad un uso massiccio della colonna sonora
che
amplifica i momenti più drammatici della vicenda. Non è forse un caso
che
pellicole come "Anonimo veneziano" o "Love story" siano
ricordate più per il commento musicale che per la loro esile trama
narrativa.
Quello che colpisce, inoltre, in questi film è l'ambientazione
tipicamente
"borghese" di queste pellicole; le trame, infatti, si svolgono,
infatti, per lo più, all'interno di ambienti lussuosi, luminosi e ben
arredati
e gli attori impegnati in queste pellicole (Meryl Streep, Debra Winger,
Susan
Sarandon, Ali Mac Graw, Tony Musante...) sono dotati tutti di un certo
fascino
e di un'indubbia bellezza.
Le uniche
pellicole che si discostano da questa rappresentazione melodrammatica
della
malattia neoplastica sono “L’amico americano” ed il successivo remake
“Il gioco
di Ripley”. In questi due splendidi film, il protagonista maschile è un
corniciaio, afflitto da un male incurabile. Consapevole del suo triste
destino,
per garantire un futuro economico alla propria famiglia, prima di
morire,
accetterà di compiere un doppio delitto.
7. Conclusioni
Come terminare
questo mio viaggio sul tema, se non con un'ultima citazione
“cinematografica” di Gianni Canova (4)?
"L'idea di
partenza è doveroso riconoscerlo, viene dalla rilettura di un vecchio
intervento di Italo Calvino. Sollecitato a riflettere sul patetico,
Calvino
ricordava quella pagina di Michele Strogoff in cui l'eroe di Jules
Verne,
catturato dai Tartari, viene condannato all'accecamento. Durante la
tortura,
prima che il fuoco gli bruci le pupille, Strogoff chiude gli occhi e
piange. E
proprio le lacrime formano sotto le palpebre una pellicola protettiva
che salva
l'eroe dalla cecità. La metafora, per chi la vuole intendere, è
cristallina, e
sembra fatta apposta per il popolo del cinema; le lacrime non ottundono
lo
sguardo, lo preservano. Non offuscano la vista, la salvano. Consentono,
cioè di
continuare a vedere ancora. (…) Ciò significa che la lacrima, in quanto
effetto
fruitivo, abbisogna contemporaneamente di un certo dispositivo testuale,
sia di
una certa soggettività che in quel dispositivo si esalta, dopo essersi
persa e
ritrovata in essa. (…) Di cosa piangiamo, se piangiamo, di fronte alle
peripezie amorose e alle catastrofi cancerose di Ali Mac Graw e Ryan
O'Neal?
Piangiamo perché anche noi abbiamo vissuto (lo stiamo vivendo) la stessa
esperienza dei protagonisti? O perché temiamo che quella stessa
esperienza
possa capitare anche a noi? O perché ci è già capitato e ne siamo usciti
positivamente? O ancora, perché ci sentiamo colpevolmente privilegiati
per non
aver subito la stessa ingiustizia? O perché ci sentiamo indignati di
fronte
alla crudeltà della vita e alla malvagità della natura? Il nostro
pianto, può
essere, di volta in volta, protettivo, cautelativo, autopunitivo,
consolatorio,
catartico. Forse è tutte queste cose insieme, in un groviglio
inestricabile di
motivazioni che garantiscono per altro, tutte, un'ineguagliabile
intensificazione delle nostre abituali esperienze emotive." (…) Per un
paradosso il pianto è il sintomo di un soggetto che ritorna in sé dopo
essersi
spinto, fuori dal suo hic et nunc, verso l'altro da sé. In quanto
espressione e
veicolo della "tenerezza verso se stessi", il pianto ripara, per quel
che è possibile, alla radicale mancanza di tenerezza mostrata dal mondo." (...)
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