Croda da Lago e Bec de Mesdì |
«Puo venire morire giovedi proximo» - con questo sms sgrammaticato la
dott.ssa svizzera Erika Preisig, fondatrice e attualmente Presidente di
LIFECIRCLE/ETERNAL SPIRIT, avvertiva il magistrato Pietro D'Amico che
poteva recarsi a Basilea per una "morte volontaria assistita".
Sono stato molto
incerto se trattare il caso del suicidio assistito raccontato nell'ultimo
numero di Vanity Fair. La storia raccontata dal giornalista Sergio Ramazzotti, anticipata da Dagospia, offre molti spunti
di riflessione. Siccome Dagospia avanza
l'ipotesi che la storia sia molto simile a quella del magistrato, morto all'età di 62 anni la primavera scorsa a Basilea in Svizzera, sono
andato a leggermi altri due articoli sull'argomento. A mio avviso, per
completezza d'informazione, va letto anche l'articolo scritto da Renata Maderna
per Famiglia Cristiana, dal titolo: Condanniamo il suicidio
assistito.Io, che sono un cancer blogger, con una recente accertata recideva di un ADK, gastrectomizzato il 3 dicembre 2010, sarei un ipocrita se dicessi che non è un argomento da evitare. Non esprimo giudizi e valutazioni, ma questi suicidi assistiti aumenteranno sempre di più se non verrà garantita una morte dignitosa alle persone con gravi patologie irreversibili. Non è dignitoso, ad esempio, morire in una stanza d'ospedale a sei letti come è accaduto a mia madre per un cancer diversi anni fa, dopo tre mesi di ricovero.
D'altronde, anche la morte volontaria assistita non è facile procurarsela. Trovo nel sito dell'Associazione di Erika Preisig che il costo totale è di 10.000,00 franchi svizzeri (circa 8.400,00 €), comprensivo del trasporto della salma al Crematorio, del costo della Cremazione (che in Svizzera è piuttosto caro) e dell’invio dell’Urna contenente le ceneri alla destinazione preventivamente indicata. Quindi non è alla portata di poveri "cristi" ma di chi gode di un certo reddito.
Il suicidio assistito è legale in Colombia e negli Stati
americani dell’Oregon, di Washington e del Montana. E, per stare in Europa,
anche in Belgio, Lussemburgo e Olanda. Ma solo le cliniche della Confederazione
offrono il servizio anche a cittadini stranieri. Per comprendere le motivazioni che hanno indotto Erika Preisig a creare un'associazione che aiutasse le persone a procurarsi la "morte
volontaria assistita", leggete l'articolo di Tommaso Cerno sull'Espresso
del 7 giugno 2013. L'ha fatto dopo che ha aiutato il padre, che aveva cercato di suicidarsi sotto un treno senza riuscirci ma rimanendo però gravemente ferito, a morire volontariamente assistito.
Dagospia, 11 luglio
2013 12:34
Hanno sbagliato i medici, o lui ha trovato un dottore
compiacente che certificasse un finto male terminale, per giustificare il
suicidio in Svizzera che da anni voleva compiere? - Melania Rizzoli: “E’ sempre
il paziente, sveglio e cosciente, a premere il bottone della flebo mortale”…
Corriere della Sera, 12 luglio 2013 | 19:30
Le
lettere-testamento del giudice D'Amico: «Voglio morire, sono due anni che li
supplico»
Il medico: «Pietro
non era in pericolo di vita. Ha ingannato anche me, mi chiese un certificato
per la pratica di prepensionamento».
Dagospia,
16 luglio 2013 19:58
Sergio Ramazzotti per "Vanity
Fair"
Un
italiano va in Svizzera a morire di suicidio assistito e sceglie di portarsi
dietro un testimone che poi racconti, in parole e immagini, quello che ha
visto. Questa è la cronaca delle sue ultime ore di vita. Una storia vera che,
dietro sua precisa richiesta, evita di mostrarne il volto e di divulgarne il
nome. Ma che ha molti punti in comune con la vicenda, in questi giorni al
centro delle cronache, del magistrato calabrese morto nella stessa città,
davanti allo stesso medico, tre mesi fa.
Entra
in uno dei tanti bar di fronte alla Stazione Centrale, a Milano. Il suo treno
parte fra mezz'ora, ha tempo per un espresso. Lo ordina lungo e non lo
zucchera. Lo beve in tre sorsi, lascia una moneta di fianco al piattino, saluta
ed esce. Prima di seguirlo faccio in tempo a notare il colore e la forma della
schiuma che si è rappresa sulle pareti interne della tazzina, ed è un'immagine
che non scorderò più, perché l'uomo che ha appena bevuto da quella tazzina
cesserà di vivere fra esattamente ventidue ore.
Io lo
so, lo sa anche lui, ed è per questo che, passando davanti al bar, mi ha detto:
«Sergio, andiamo a prendere un ultimo
caffè come si deve, ché in Svizzera li fanno 'na chiavica».
Marmotta nella Valle d'Ombretta |
Nel
2010 è andato la prima volta in Svizzera per avviare la pratica di suicidio,
illegale in Italia, e ha scoperto che anche lì darsi la morte non è semplice:
serve il nulla osta di due medici diversi, che la deontologia obbliga a cercare
di dissuaderti. Nei due anni successivi, è stato respinto tre volte.
Intanto
la malattia ha continuato il suo corso, e da tempo lui teme di superare quello
che gli assistenti al suicidio definiscono il «punto di non ritorno», oltre il
quale il tuo degrado psicofisico non ti consente più di aprire la valvola della
flebo con la sostanza letale (la legge vieta che sia il medico a farlo al tuo
posto, si tratterebbe di eutanasia). È il paradosso del suicidio assistito:
devi avere ancora vita a sufficienza perché ti sia concesso di togliertela.
Ma è
un uomo tenace, uno che si è fatto strada dal nulla, ha preso due lauree e al
culmine della carriera è arrivato a disporre dei destini di centinaia di suoi
simili: all'inizio di quest'anno è tornato alla carica, si è sottoposto a nuove
visite, si è fatto preparare l'ennesima perizia, l'ha spedita in Svizzera, ha
ricevuto un sms. Me lo mostra sul display del suo cellulare. Mittente: Erika
Preisig, +41.79 eccetera. Il testo è in italiano: «Puo venire morire giovedi proximo».
Preisig
è un medico e un'assistente al suicidio. Tre giorni la settimana è impegnata in
ambulatorio a Basilea, quindi a chi vuole morire dà appuntamento il lunedì o il
giovedì, i suoi giorni liberi. Lui la conosce bene: da tre anni le scrive
lettere che esordiscono tutte con la stessa frase: «Dolce sorella mia».
Quando
ha riattaccato, dopo averla chiamata per accordarsi sul luogo e sull'ora in cui
lascerà questo mondo, erano da poco passate le undici di mattino di un venerdì:
sapeva di avere, al netto degli imprevisti, centoquarantuno ore e trenta minuti
di vita.
Quando
lo vedo, il lunedì mattina, gliene sono rimaste poco più di sessantotto: arriva
in macchina nella via dove mi ha chiesto di aspettarlo, lontano dal centro per
non rischiare di incontrare i conoscenti, la moglie, i figli a cui ha
raccontato che sarà a Napoli per l'ennesimo consulto con uno specialista. «Se
sapessero cosa sto andando a fare mi incatenerebbero a casa», dice con un
sorriso amaro.
Litighiamo
subito, perché vorrebbe che guidassi la macchina fino a Napoli, ma io mi
oppongo, non voglio avere una parte attiva nel suo viaggio verso Basilea. «Solo fino a Napoli e poi prendiamo il
Frecciarossa, che ti costa?», insiste. Rispondo che può costarmi l'anima,
oltre a qualche anno di galera. «Sergio,
quanto sei stronzo, nemmeno a un uomo che sta per morire puoi fare un favore»,
dice, ma ci aggiunge una carezza sulla guancia. «Ma sì, hai ragione, lo stronzo sono io: monta e jammucinne, va'».
Guida
con una lentezza esasperante, doversi concentrare sulla strada lo stanca
parecchio. Sono duecento chilometri fino a Napoli, milletrecento fino a
Basilea, sessantasette ore e tre quarti di vita.
Mi ha
voluto accanto a sé perché rimanesse una testimonianza della sua scelta, delle
ragioni che l'hanno spinto a compierla, di come sia costretto - trascrivo le
sue parole - a «umiliarsi un uomo,
viaggiando lontano da casa come una specie di clandestino, per poter esercitare
fino alle estreme conseguenze il proprio sacrosanto diritto al libero arbitrio,
che nel nostro Paese ci viene negato». E sono qui, un perfetto estraneo nell'abitacolo
della macchina dove dovrebbero essere i suoi familiari, a chiedermi se sia
stato lui ad abbandonarli o se invece, come sostiene, non sia il contrario.
«I familiari non capiscono le tue
sofferenze»,
dice in tono rabbioso, «non capiscono che
quando sei condannato la vita può diventare un peso insopportabile, che ogni
volta che vedi sorgere il sole e sai che ti aspetta un altro giorno da vivere è
come se ti caricassero sulle spalle un altro macigno e ti spingessero a
camminare a frustate. No, non lo capiscono, o forse non vogliono. Tutto quello
che vogliono è che tu continui a esistere, per la loro consolazione, per il
loro puro egoismo, per rimandare il più possibile il momento in cui dovranno
avere a che fare con la tua morte. Però poi cercano di evitarti, trovano ogni
scusa per lasciarti da solo, perché la tua malattia li mette a disagio».
Nei
suoi occhi c'è un'amarezza infinita, e un risentimento che in parte è rivolto a
me, perché crede che anch'io sia di quelli che non capiscono. Lo crede da quando
ci siamo fermati in un bar lungo la strada per comprare dei panini che abbiamo
mangiato in macchina, mentre continuava a guidare. Erano panini appetitosi, di
pane casereccio e prosciutto e formaggio locale. Mangiava con gusto, e ho
osservato che non sembrava uno pronto a morire, e la cosa l'ha mandato su tutte
le furie. «E secondo te che cazzo dovrei
fare, digiunare, così crepo con la fame?», ha urlato.
«Pensi che mi faccia piacere
andarmene, eh? Pensi che non preferirei continuare a godermi la vita? Il fatto
è che quando sei nelle mie condizioni un momento per andartene lo devi
scegliere, e deve essere prima di rincoglionirti del tutto, prima di non essere
più capace di aprire quella cazzo di valvola, capito? Prima, quando ancora hai
appetito e voglia di berti un vino fresco e farti una scopata, perché dopo è
troppo tardi. Quindi non rompermi mai più i coglioni con questa storia».
Così
è calato il silenzio, che mi è parso durare un'eternità ed era intollerabile
perché ormai le ore erano sessantaquattro scarse, fino a quando non mi ha
appoggiato una mano sulla spalla e, come se fra noi non fosse successo nulla,
ha detto: «Sergio, che hai, perché non
parli più?». Con il Vesuvio all'orizzonte, ha avuto la tremenda prontezza
di citare l'adagio vedi Napoli e poi muori, e ha aggiunto: «Non posso
biasimarli, sai».
«Chi
non puoi biasimare?», ho chiesto. «I
miei. Quelli come loro. Tutti quelli che mi vorrebbero vivo. Non possiamo
sopportare la vista di una persona se sappiamo con precisione l'ora in cui
morirà. Riusciamo ad affrontare la morte solo quando ci coglie alla sprovvista.
È uno dei pochi casi in cui la certezza spaventa più dell'ignoto. Tu, per
esempio, la sopporti la mia presenza?». Rispondo di sì. Entrambi sappiamo
che sto mentendo.
Sul
frecciarossa per Roma, e su quello che il giorno dopo ci porta a Milano, parla
in continuazione, come se avesse orrore del silenzio, come se una vita senza
conversazione fosse una vita sprecata. Discute in modo brillante di tutto, di
filosofia, di musica, di storia e di fisica delle particelle subatomiche.
L'unico argomento che liquida in due frasi lapidarie è la fede: «Una gran fregatura», dice, lui che è
cresciuto in una famiglia rigidamente cattolica.
«Non posso più accettare l'idea
di un Dio che permetta tanta sofferenza».
A Roma, dove abbiamo fatto una sosta perché non se la sentiva di proseguire, ha voluto entrare in Santa Maria Maggiore. Si è messo a sedere sul plinto di una colonna ed è stato per un po' con lo sguardo fisso verso l'abside. Ho pensato che stesse pregando, ma quando mi sono avvicinato ha detto: «Andiamocene a mangiare qualcosa, che è meglio».
Tace solo quando l'emicrania prende il sopravvento, e allora chiede a me di parlare. «Raccontami delle storie», dice. «Di che genere?», rispondo.
A Roma, dove abbiamo fatto una sosta perché non se la sentiva di proseguire, ha voluto entrare in Santa Maria Maggiore. Si è messo a sedere sul plinto di una colonna ed è stato per un po' con lo sguardo fisso verso l'abside. Ho pensato che stesse pregando, ma quando mi sono avvicinato ha detto: «Andiamocene a mangiare qualcosa, che è meglio».
Tace solo quando l'emicrania prende il sopravvento, e allora chiede a me di parlare. «Raccontami delle storie», dice. «Di che genere?», rispondo.
«Del genere che non annoia: 'sto
viaggio è lungo assai»,
e mi sorprendo a rivelargli cose inconfessabili che non ho mai raccontato a
nessuno. Alcune lo fanno ridere, e penso che un uomo non ride mentre va
incontro alla propria morte. O forse è solo una convenzione a cui siamo stati
educati. A tratti mi perdo nei pensieri, in silenzio fisso la campagna che
scorre troppo veloce oltre il finestrino, faccio il calcolo delle ore che
restano. Allora lui mi scuote una spalla e mi dice: «Fatti coraggio, non è niente».
È ossessionato
dalla possibilità che la famiglia intuisca le sue intenzioni e metta la polizia
sulle sue tracce. Ha tolto la batteria dal cellulare, nelle stazioni si guarda
in giro alla ricerca delle telecamere, paga tutto in contanti.
In
albergo a Milano, mentre estrae dalla borsa a tracolla sei banconote da
cinquanta nuove di zecca per pagare la camera, l'uomo alla reception guarda con
sospetto e fastidio i suoi capelli sporchi, l'impermeabile sgualcito, il volto
deformato dalla stanchezza del viaggio, la camminata sofferente sostenuta dalla
stampella - tutte cose che stonano con l'arredamento di design - e l'unico
bagaglio, troppo piccolo anche per una sola notte.
È la
stessa cosa che mi chiedo anch'io dall'altro ieri: che cosa mette in valigia un
uomo che va a morire? Che cosa c'è nelle sue tasche, e perché mi incuriosisce
più di quello che c'è nella sua testa?
Lo
scopro quando lo accompagno in camera e lui svuota il contenuto della borsa per
disporre tutto con ordine maniacale sulla scrivania. C'è poco più di niente.
Due grosse buste indirizzate ai familiari. Una cartelletta azzurra gonfia di
perizie mediche. Un portafoglio con i contanti. Le chiavi della macchina che
spedirà alla famiglia con lo scontrino di un parcheggio di Napoli. Un sacchetto
di plastica con un'arancia e una confezione di biscotti.
Niente
biancheria, niente vestiti di ricambio, nessun accessorio da bagno: per
contenerli ci vorrebbe almeno una borsa quarantotto ore, e a lui non ne restano
che trentacinque.
Sul
treno per Zurigo, dopo l'ultimo caffè davanti alla Centrale, non parla più. Da
quando abbiamo passato il confine e le guardie di frontiera svizzere e i
finanzieri italiani sono scesi, fissa il cielo oltre le vette, come se stesse
studiando la rotta. «Leggi un po'»,
mi dice, «fa' qualcosa per distrarti,
lasciami guardare queste belle montagne».
Penso,
sul momento, che sia il suo modo di prepararsi ad abbandonare la terra, di
recidere uno a uno i fili che lo legano al mondo, a cominciare dalla
conversazione e dal rapporto con gli altri esseri viventi. Scoprirò, poi, che
non è così: lui è semplicemente angosciato dalla prospettiva di non riuscire a
superare l'ultimo ostacolo che lo separa dalla morte, il consulto con il medico
di Zurigo che dovrà firmare il secondo nulla osta, il giorno precedente il
suicidio.
Arriviamo
all'ambulatorio verso le cinque del pomeriggio, in ritardo di mezz'ora. Teme di
non trovare più il dottore, che invece è lì ad aspettarlo e lo accoglie con una
stretta di mano, parlando in un italiano dal forte accento tedesco. Il
colloquio dura tre quarti d'ora. Il medico è un uomo tarchiato con una folta
barba candida, indossa una camicia da montagna che - penso in modo del tutto
incongruente - mi ricorda il nonno di Heidi, fa domande a raffica.
Quando
finalmente dice: «Per me tutto a posto,
può morire domani», lui - un uomo che per tutta la vita ha guidato le sorti
di altri uomini - cade in ginocchio, gli afferra la mano, la bacia, dice: «Grazie, dottore, che Dio la benedica».
Ora è
sollevato, quasi allegro. Ha ripreso a parlare e alla stazione di Zurigo,
mentre aspettiamo il treno per Basilea, vuole comprare un sandwich con würstel
di vitello. Lo mangiamo in piedi sulla banchina: sarà la sua ultima cena.
Alla
reception dell'albergo di Basilea il personale è più cortese che a Milano.
Quando ha prenotato, lui ha pagato anche per la notte precedente, e la donna in
tailleur nero gli dice che potrà farsi rimborsare i soldi dalla sua agenzia di
viaggio. Le risponde con un mezzo sorriso: «Signorina,
non ha importanza».
La
dottoressa Preisig lo raggiunge nella sua stanza un'ora dopo. Si abbracciano
con un'intensità struggente. Preisig gli fa firmare gli incartamenti,
all'improvviso lui è agitato, insofferente: «Erika,
non possiamo farlo stasera?». Lei, paziente, spiega che è impossibile: la
morte ha bisogno dell'apparato burocratico, che la notte non lavora. «E se stanotte dovesse succederti qualcosa?
Se domattina tu non potessi venire?».
Fanno
quasi tutti così, mi spiegherà poi la dottoressa: giunti a questo punto non
hanno paura della morte, ma di non poter morire. Le chiede di accompagnarlo a
fare una passeggiata: «Voglio vedere il
centro storico, non ci sono mai stato».
Camminano
sottobraccio, lentamente, nei vicoli deserti. Fa freddo, e lui non ha altri
vestiti che quelli con cui è uscito di casa tre giorni prima, vestiti da
primavera del Sud, adatti a un luogo soleggiato, immensamente lontano. Dopo un
po' è stanco, vuole tornare in albergo. Quando Preisig sale in macchina, le
dice: «Stai attenta, guida piano». L'ultima
cosa che fa prima di ritirarsi in camera è chiedere alla ragazza in tailleur di
prenotargli un taxi per il mattino: «Mi
raccomando, alle otto e venti precise: ho un appuntamento importante».
Il
monolocale al piano terra dove Preisig accompagna al suicidio è in un quartiere
residenziale poco lontano dal centro. Un secolo fa ospitava una sinagoga. Lei
lo ha fatto ristrutturare cercando di renderlo il più accogliente possibile, ma
il risultato è che sembra la stanza di un residence per ex mariti cacciati di
casa: c'è un letto singolo, una poltrona, un angolo cottura a vista, un
assortimento di cd, un tavolino da salotto con un vassoio di cioccolatini,
nessuna finestra, la gelida presenza dello stelo di alluminio per appendere la
flebo.
Arriviamo
qualche minuto prima delle otto e trenta. Entra, saluta, dà un'occhiata rapida
alla stanza, guarda l'orologio, chiede se è tutto a posto con un tono
distaccato, quasi militare. Anche Erika cerca di sembrare fredda e padrona di
sé («È quello che le persone si
aspettano, a questo punto»), ma è evidente che le costa fatica. Lui estrae
dalla borsa le lettere per i familiari, chiede che vengano spedite dopo la sua
morte insieme all'urna con le ceneri, si sfila le scarpe, si siede sulla
poltrona. «Erika, angelo mio», dice, stavolta con dolcezza, «vieni, non
perdiamo tempo».
Alle
otto e quarantacinque, Preisig gli infila l'ago nella vena, e mette in
comunicazione il suo corpo con la sacca di soluzione fisiologica nella quale ha
già disciolto una dose letale di Pentobarbital di sodio. Da adesso, la sola
cosa che lo separa dalla morte è un pezzetto di plastica arancione del valore
di pochi centesimi, la valvola che dovrà aprire. Erika gliela porge, lui la
prende delicatamente, come se fosse una farfalla viva. Nei suoi occhi c'è una
gratitudine incalcolabile.
«Funzionerà, vero? Non
soffrirò?»,
dice. «No, non soffrirai. Dormirai un
sonno profondo». «Grazie, angelo mio,
che Dio te ne renda merito». Poi ha un ripensamento. «Sergio», dice, «portami la
borsa». Gliela metto in grembo, rovista tra le carte e l'arancia ancora
intatta e ne estrae un piccolo crocifisso. Lo stringe nell'altra mano, mi
guarda e scrolla le spalle come per dirmi: che ci vuoi fare?
Poi
tutto accade velocemente. Ruedi, il fratello di Erika, accende la telecamera:
il video servirà a dimostrare che in questa stanza un uomo si è tolto la vita
di sua volontà. La polizia lo dovrà visionare, ma verrà chiamata solo a decesso
avvenuto: per paradosso, se fosse presente dovrebbe impedire il suicidio.
Erika
rivolge le tre domande di rito: nome, data di nascita, sei cosciente di quello
che accadrà quando aprirai la valvola. Alla terza, la risposta è: «Finalmente sarò libero». Tocca a lui
aprire la valvola, alle nove e sei minuti. Nello stesso momento comincia a
recitare l'Ave Maria. Erika, in ginocchio, gli accarezza la mano e sussurra il
suo nome come un mantra. Quando si arriva a «prega per noi peccatori», la voce
è un nastro al rallentatore. Non pronuncerà mai l'amen finale. Il suo cuore si
ferma alle nove e dieci.
Mentre
aspettiamo la polizia, che arriverà tra poco insieme al procuratore capo e al
medico legale, guardo il corpo di quest'uomo che ho conosciuto in modo così
superficiale eppure così intimo, un uomo forte e disperato, che alcuni
chiamerebbero un eroe e altri un codardo. Sul suo volto vedo la pace. Mentre il
personale dei servizi funebri lo porta via, mi sembra di sentire la sua voce
che mi dice: «Sergio, non rompermi i coglioni».
A chi ha letto questo post, se vuole, guardi il film "Kill Me Please", un film del 2010 diretto da Olias Barco, vincitore del Marc'Aurelio d'Oro della Giuria per il miglior film al Festival Internazionale del Film di Roma ...
RispondiEliminaRoberto Gervaso, scrittore, giornalista e aforista italiano diceva: “la vita è la più monotona delle avventure, finisce sempre allo stesso modo..”.
Ma il modo per farla finire no, quello non è lo stesso, per ognuno la sua sorpresa.